50 anni dopo l'omicidio
Mario Lupo, i giorni dell'odio e la lunga stagione dell'oblio
Con i suoi 69 anni, sarebbe ancora quasi giovane, per i criteri d’oggi. Marito, padre e nonno diviso tra affetti, passioni, abitudini e problemi: avrebbe vissuto una vita e ancora ne avrebbe davanti a sé. Forse sarebbe ancora impegnato in politica, più o meno fermo nei propri ideali, chissà. O forse se ne sarebbe allontanato, deluso come tanti. Non gli è stato concesso di proseguire né di cambiare: a nemmeno vent’anni, Mariano Lupo è stato ucciso in un’aggressione neofascista. Una coltellata in pieno petto, il cuore trafitto - lui, che di cuore viveva - e non c’è più stato domani. Erano le 23 del 25 agosto del 1972, quando il giovanissimo militante di Lotta continua esalò l'ultimo respiro tra le braccia di compagni e soccorritori, sull’asfalto di viale Tanara. Da allora è passato il tempo che divideva quel venerdì maledetto dalle Barricate di cui si è appena celebrato il centenario. Ma ben altro peso ha avuto l'ultimo mezzo secolo.
Tutto è cambiato. Chiuso il circolo intitolato a Lupo in piazzale Allende e al posto del cinema Roma, davanti al quale fu commesso l’omicidio, c’è uno coiffeur. A ricordare Mariano oggi rimane una lapide dove cadde morente.
«Un vuoto da colmare: chiedo pubblicamente al sindaco Guerra di onorare la memoria di Mario (molti lo chiamano così, ndr), ultima vittima della nostra guerra partigiana, intitolandogli una via».
A parlare è Ettore Manno, più di un amico, più di un compagno. Per lui Mario è uno sfortunato gemello. Lo ricorda a parole oggi come nelle pagine intense de «La piuma e la montagna», curato da Francesco Barilli per Manifestolibri.
Erano nati lo stesso anno, entrambi a Cammarata (Agrigento): Manno arrivò nel 1961, l’altro nel '69. Entrambi entrarono nel movimento a sinistra del Pci, «la prima organizzazione che aggregasse giovani di diverse estrazioni sociali. Non c'è niente di simile oggi». A caldo, molti pensarono che la vittima fosse proprio Manno, noto per i volantinaggi (uno, per Panagulis perseguitato dai Colonnelli in Grecia, gli era costato l’espulsione dal Melloni), i comizi non autorizzati e le pubblicazioni clandestine. Ipotesi plausibile: le carte processuali parlano di omicidio politico e non passionale. Ma l’allora dirigente di Lotta continua, futuro consigliere comunale e assessore provinciale, era in Sicilia. Rientrò con il primo treno: 36 ore nella morsa del silenzio, la Penisola osservata attraverso il finestrino e le lacrime.
Con ben altri occhi avevano scrutato lo stesso paesaggio Lupo, i sei fratelli e il padre Cristino e la madre Ausilia, diretti a nord tre anni prima. Pochi mesi in Germania, e Mariano aveva trovato lavoro a Parma come piastrellista. «Ci conoscemmo - ricorda Manno - in un bar vicino a San Francesco, luogo di ritrovo per immigrati come noi». A unirli era più dell’origine. Con la stessa passione, ascoltavano i partigiani dal Sordo, in Oltretorrente, o nel bar di via Imbriani, all’angolo con borgo Fiore. Per molti - delusi dall’Italia nata dopo il 25 aprile - la Resistenza era stata tradita. Sul fronte opposto, c’era chi invece voleva rimettere in discussione le conquiste della democrazia. Forse per il protagonismo antifascista (le Barricate, la medaglia d'oro nella guerra di Liberazione) o per chissà quale motivo, Parma era considerata una palestra di rivincita per l’estrema destra. «Stefano Delle Chiaie era spesso qui - racconta Manno - così come i neofascisti veronesi della Rosa dei venti».
Altro che formidabili: anni terribili. Di muri (di divisione o tazebao per promesse di morte) più che di piazze. Contava l'ideologia e nient'altro. «Ora, è legittimo chiedersi se in tutto il campo della militanza, qualunque essa fosse, non si dovesse pensare che la vita ha un ben altro valore». La domanda è retorica. E Manno ricorda come anche l'estrema destra abbia contato vittime innocenti. Come Sergio Ramelli, il 18enne ucciso a colpi di chiave inglese a Milano, per aver affisso manifesti del Fronte della gioventù. Anni terribili, terribile la quotidianità degli scontri, anche a Parma. «Ogni giorno c'erano agguati e incursioni squadriste» ricorda Manno, che sulla schiena ha il marchio delle frustate inferte dai neofascisti con il filo spinato. «La nostra era un'autodifesa militante. Le istituzioni facevano ben poco per isolare i violenti di destra. Mario ha perso la vita per questo, oltre che per quel clima d'odio».
La sua fu una morte annunciata. La tensione era cresciuta fino a costringere il Movimento sociale a espellere i giovani che di lì a poco sarebbero stati coinvolti nell'omicidio. Alcuni avevano risposto a quella scelta di «mollezza» asserragliandosi nella sede del partito in via Ferdinando Maestri. Quei locali, il 27 agosto furono poi devastati dai compagni di lotta del 19enne ucciso. In quelle ore, due dei neofascisti coinvolti nell'aggressione venivano catturati a Napoli. Mentre il 21enne che aveva sferrato la coltellata letale (del quale omettiamo di fare il nome, per rispetto del diritto all’oblio, trascorsi cinquant'anni dall'omicidio) si era appena costituito a Roma, forse dopo aver cercato invano la protezione dei vertici del Msi. In primo grado ad Ancona fu condannato a 11 anni per omicidio preterintenzionale: alla lettura della sentenza, la madre di Mariano (la famiglia era assistita dall'avvocato Decio Bozzini e dal padre costituente Umberto Terracini), scagliò una scarpa contro il giudice. In appello, all'omicida furono inflitti 14 anni e 8 mesi. «Non possono esservi dubbi sul fatto che i giovani missini, quella sera, avevano in animo di fare qualcosa e si erano preparati in tal senso» è scritto nella sentenza definitiva confermata dalla Cassazione.
Ben altra condanna era stata emessa il 28 agosto del 1972, quando i funerali di Lupo si trasformarono in un'imponente e pacifica manifestazione antifascista (ci fu chi parlò di 50mila persone). Esposto in Comune, il feretro fu portato a spalla attraverso il il ponte di Mezzo e via Imbriani. In piazzale Picelli l'orologio della storia tornò ai giorni delle Barricate. Qui Giacomo Ferrari tenne l'orazione funebre. «Si pianga il morto - disse l'ex sindaco partigiano - ma quanto è successo valga di monito per dare ai nostri figli un domani migliore e sereno e perché gli anziani oggi possano chiudere gli occhi senza imprecare al passato». Anche per questo la memoria di Lupo non può essere affidata solo a una lapide lungo l'indifferenza del traffico. «La giustizia proletaria ti vendicherà» vi si legge. Una frase non più attuale per Manno. «Si vada oltre la vendetta. La giustizia migliore sarebbe ricordare il sacrificio di un ragazzo di 19 anni ucciso dai fascisti: farne un monito contro la violenza anche per le nuove generazioni». Una strada, per guardare i giorni dell'odio da un'altra distanza.
Roberto Longoni