TUTTA PARMA
Quando la cucina era povera
Quando la fame «urlava» nello stomaco e le «rezdóre» erano sempre alle prese con quella cucina povera (povera, non certo per moda, diletto, diete o reazione alla super-alimentazione, ma per mancanza di materia prima) che doveva fare i conti con numerosi e famelici commensali, la parola d’ordine era una sola: arrangiarsi.
Ed allora la gente dei campi, ma anche quella che abitava negli angusti borghi dell’oltretorrente, doveva fare veri e propri funambolismi per sbarcare il lunario e riempirsi la pancia.
Nei mesi freddi entravano in scena i tristemente famosi «polmonär» (coloro che praticavano l’uccellagione invernale). Un po’ di tempo prima della partenza per la caccia, che avveniva alla mattina di buonora, i «polmonär» (autentici bracconieri), andavano alla ricerca delle bacche di vischio che, una volta fatte macerare sotto il letame («la màsa»), si tramutavano in una pasta collosa con la quale si cospargevano i rametti di sanguinello per catturare fra gli arbusti: merli, «pigàs», «colombén'ni», «tórd», «maciaról» e tutti quegli uccelli che, posandosi su quei «rami-trabocchetto», non sarebbero più riusciti a guadagnare l’aria ma, al contrario, venivano afferrati da mani robuste per poi essere richiusi in un sacco di juta e finire in padella per il condimento della polenta, gialla delizia delle mense povere e orgoglio di ogni «rezdora».
Ma erano le osterie e le locande, specie le più frequentate dai birocciai e dai «casonér», che andavano a far ghiaia sul greto dei fiumi, che si esprimevano al meglio in fatto di piatti poveri. Ad esempio, molti di quei vetusti locali che si affacciavano sulla vecchia cara via Emilia, sia nella parte parmense che in quella confinante reggiana e piacentina, oltre essere dotati di angusti portici che, in estate, offrivano frescura e ristoro, erano teatro di episodi davvero singolari. L’osso di spalla o di prosciutto, come un’auto o un motorino, veniva acquistato di seconda o terza mano rappresentando, per altro, una preda ambitissima. Ogni avventore pagava la propria quota man mano l’osso cambiava di proprietario fino a che l’ultimo acquirente, una volta tagliuzzata la polpa rimasta, lo abbandonava sul tavolo accanto alla bottiglia di vino rigorosamente vuota. Ma non era ancora venuto il momento di gettarlo. Ed, allora, l’osso, spogliato ormai di tutta la carne, veniva «catturato» da qualche disperato di turno e buttato dentro la pentola per insaporire una zuppa o un minestrone di verdura. Sempre in queste osterie i ruspanti avventori facevano colazione, come ha descritto l’indimenticato Angelo Martelli nel suo bel libro «La Cucina Povera in Emilia-Romagna» (Solfanelli Editore), con le zampe, le teste e «al magón» (stomaco) lessati delle galline. Nelle osterie, sia di città che del contado, non potavano mai mancare sul bancone: «óv dur», «marluss fritt» e «polpètti», tutti cibi che l’oste provvedeva a salare bene allo scopo di far bere gli avventori. E, come minestre, specie invernali, le osterie offrivano «riz e vérzi» oppure «riz e tridùra» (riso in brodo con uovo strapazzato e parmigiano).
Anche se la sua carne sapeva di pesce, o meglio puzzava di frescume, la «folaga» (uccello acquatico palustre) nei paesi rivieraschi padani (compresi quelli del parmense) era una ghiotta preda per i contadini ed i «casonér dei fiumi», ossia i barcaioli, i quali, attraverso i più strani stratagemmi (trappole, lacci, reti od altro), davano la caccia a questo volatile che rappresentava, addirittura, un piatto di prim’ordine se accompagnato dal riso. Nelle osterie che si affacciavano sui fiumi abbondavano le portate di rane e pesce fritti accompagnai dalla polenta: «pèss gat», e «pèss putana», quest’ultimo, in tutte le tavole, «marinè», per la cena della Viglia di Natale.
Un’ altra caccia al companatico, in uso laddove erano presenti le risaie o le grandi peschiere delle ville padronali, era rappresentata dalla pesca invernale. Quando il gelo racchiudeva in una bara di cristallo carpe, tinche, pesci gatto, i contadini, in cambio di qualche uovo, ottenevano il permesso dal padrone della risaia o della peschiera di fendere il ghiaccio per pescare non più di due pesci per volta (se erano grossi meglio, se invece erano piccoli, si riprovava il giorno dopo ricordandosi bene di barattare altre uova se ci si voleva sfamare). Nei nostri torrentelli, invece, i ragazzi andavano a «grottare», cioè, a catturare il pesce che si infilava tra i sassi del fiume, mentre altri erano espertissimi nella cattura dei gamberi che, per la qualità della carne e per l’habitat che richiedevano (acqua purissima), erano prede davvero ambite e ricercate. In città, invece, oltre i «safari sui tetti» per catturare le familiari «lévri da còpp» (quei poveri gattoni che, strusciando tegole e comignoli, di notte, facevano compagnia alla luna), era in voga un altro tipo di caccia che, per lo più, aveva per teatro i vecchi campanili dove i piccioni andavano a nidificare.
Ed allora, al calar delle tenebre, abili cacciatori salivano le sgangherate scalette in legno facendo attenzione a non farle scricchiolare più di tanto. Arrivati ad una certa altezza, senza l’ausilio di nessun faro, ma solo ed esclusivamente al bagliore di una luna complice e compiacente, allungavano le mani a colpo sicuro dove era annidata la preda: i «pisón anvél» (piccioni novelli) che, opportunamente sistemati dentro un sacco di juta, venivano poi cucinati in varie versioni, non ultima la bomba di riso. Un po' di polvere, qualche piuma che svolazzava qua e là, odore di vecchio e di stantio, batter d’ali, ragnatele un pò dovunque, qualche imprecazione in dialetto, infine l’orologio del campanile che scandiva l’ora di battersela a gambe, prima che il campanaro o il parroco si svegliassero causa il trambusto e azionassero il loro rudimentale antifurto: solitamente un palo di gaggia che stazionava dietro la porta della canonica.
I parmigiani sono sempre stati ghiotti di carne di cavallo: il popolarissimo «cavàl pìsst». La carne di cavallo o di asinina veniva utilizzata dalle famiglie più povere anche per fare lo stracotto per gli anolini in quanto costava molto meno del vitello e del manzo. E poi esisteva il «pìsst äd secónda», a minor prezzo, che le «rezdóre», d'ogni tanto, acquistavano per fare le polpette con molto più pane che carne oppure per cucinare la «vécia» con peperoni e patate. Se c'è una cosa positiva (ammesso che ci sia) nella miseria è che non si butta via nulla. E così facevano anche i nostri vecchi. Quando si uccideva il maiale o una gallina il sangue veniva raccolto dalle donne per confezionare torte oppure lo friggevano («sangonàs») con farina e cipolla.
Come pure erano molto utilizzate le parti meno nobili di una bestia: lingua, milza, polmone, cuore, rognone e interiora varie, trippa compresa che, quando viene portata in tavola, in parmigiano, cambia nome diventando «buzéca». Le frattaglie (i non più giovani ricorderanno un negozietto in Ghiaia che le vendeva e portava proprio questo nome) sono sempre state molto ambite dalla povera gente in quanto avevano un costo relativamente basso (per le borse di quei tempi) e poi, cucinate a dovere, rappresentavano un diversivo alla polenta o alla zuppe.
Come pure c'era chi si recava dal salumiere per acquistare gli «artàj», ossia le parti di scarto del prosciutto e di altri insaccati che il pizzicagnolo metteva da parte per assicurare il taglio sempre perfetto dei suoi salumi senza la minima traccia di cotenna. Insieme agli «artàj» c'era chi si poteva permettere qualche «culetto» di salame o di coppa che, magari, non aveva un soavissimo profumo ma «suonava» leggermente. Dopo un temporale estivo, le donne, si portavano nei prati, nei giardini e negli orti, munite di secchi o cestini, per raccogliere le lumache che, una volta «purgate» nella crusca, venivano cucinate secondo antiche liturgie muliebri. Come pure le rane non sfuggivano al povero pasto o alla frugale cena della gente di ieri. Nei fossati del primo contado squadre di «ranai», di notte, munite di lampade ad acetilene, andavano a catturare le povere rane che, il mattino dopo, erano trattate a dovere dalle donne che le ripulivano, le spelavano e le friggevano. Le più abili friggitrici di rane, la tradizione, vuole che fossero le «rezdóre» «äd Frasanära» (Frassinara), mentre le cuoche più abili nel cucinare le anitre novelle arrosto, chiamate in loco «sjorén’ni» («signorine»), erano quelle di Viarolo, più precisamente, «dal Cornasàn».
Lorenzo Sartorio