Solidarietà

Speranza, 9 anni, liberata dall'inferno con un bisturi

La chiameremo Speranza, anche se forse pure quella le fu strappata via. E a ciò che ha vissuto daremo il nome che merita: orrore. Patito prima in dosi massicce di brutalità pura, poi in un quotidiano stillicidio d'emarginazione in un Paese già difficile. Aveva quattro anni o nemmeno, quando Speranza è stata stuprata per mesi da uno o più orchi (ognuno trovi il termine più consono). Chi lo fece, le devastò apparato urogenitale e retto. Le lacerazioni furono tali da renderle impossibile trattenere urina e feci. E così al grande trauma se ne aggiunsero infiniti altri. Nel suo villaggio in Somaliland, per altri quattro anni la bambina dovette mangiare separata da tutti e dormire all’esterno: l’odore da lei emanato era insopportabile al prossimo. Lei stessa lo sentiva, respirando vergogna. Ma le stava addosso come una condanna.

Serviva un esperto bisturi d’amore per tagliarle di dosso i segni di un passato atroce; servivano ago e filo di umanità, per ricucirla alla vita. «Speranza ora è rifiorita - esclama Emilio Casolari, direttore di Chirurgia pediatrica del Maggiore, il reparto che da mesi ha “adottato” la bambina, coccolata da infermiere e oss e dagli educatori di Giocamico -. All'inizio stava sempre a capo chino: ora sorride, interagisce con noi e gli altri bambini, pronuncia le prime parole in italiano. Presto le sarà chiusa anche la colostomia, per darle la possibilità di una vita normale». In dicembre compirà dieci anni: e sarà ripartita da zero.

Del Rossi: «Condizioni mai viste»

In realtà, ricomincerà da più su, dopo gli incontri ravvicinati con altruismo, solidarietà, empatia. Anche se il trauma psicologico rischia di condizionarla forse per sempre. Trascorsi, all'età di otto anni, alcuni mesi con la nonna, che la fece visitare dai primi medici locali, Speranza venne presa in casa da una coppia somala che aveva perso un figlio. I nuovi genitori la portarono nel miglior ospedale di Addis Abeba. Anche lì gli specialisti allargarono le braccia, ma nel frattempo si era allargata pure la richiesta d'aiuto. I missionari locali contattarono Raffaele Virdis, pediatra e direttore dell'ambulatorio sanitario della Caritas che in questa vicenda è protagonista accanto all'azienda ospedaliero universitaria. E da Parma l'sos fu rilanciato in Africa, per Carmine Del Rossi, allora in missione all'ospedale di Emergency a Entebbe. All'ex primario di Chirurgia pediatrica del Maggiore, in pensione ma come sempre in prima linea sul fronte umanitario, furono inviate mail e foto. Aprirle, per il «boro doctor» (il grande dottore: così è chiamato in Bangladesh) fu come affacciarsi su una voragine di disumanità.

«Mai in tanti anni ho visto una situazione simile - afferma -. Ho affrontato malformazioni congenite o anche traumi a vescica, vagina, retto e perineo che possono verificarsi in seguito a un parto. Ma niente del genere, su una bambina». Alla complessità chirurgica dell'intervento si aggiungeva quella psicologica. Si trattava di strappare Speranza a un inferno costruito da altri (i polpastrelli rifiutano di digitare la parola «uomo»). Del Rossi ripensò alle migliaia di casi risolti e accettò. «Dovevo farlo» dice.

«Un grande gioco di squadra»

Il chirurgo sarebbe tornato ai primi di maggio: era opportuno che già in aprile la bambina subisse la deviazione al Maggiore, per preparare la parte perineale all'intervento decisivo. Furono coinvolti il direttore generale dell'azienda ospedaliero universitaria Massimo Fabi e il direttore sanitario Ettore Brianti. «Ancora una volta - ricorda il chirurgo - ho trovato molto sensibile l'amministrazione». Nemmeno i vertici del Maggiore vennero lasciati soli. «Si è mossa una rete di solidarietà internazionale di cui l’ospedale di Parma è parte integrante con i propri professionisti, che hanno saputo gestire in modo corale un caso così complesso - sottolinea Fabi -. Sono orgoglioso dell’umanità, competenza e serietà dimostrata ancora una volta dagli operatori di questo ospedale. Capacità umane e professionali costruite con un duro lavoro svolto spesso in silenzio».

Il gioco di squadra, ricorda Virdis ha coinvolto «l’Azienda, la Caritas e la Regione, per trasferire la bambina dalla Somalia a Parma, ospitarla e operarla. Tutto si è svolto in tempi rapidi e veloci». Speranza non avrebbe potuto chiedere di meglio. A offrire ospitalità e assistenza ai suoi nuovi genitori sta provvedendo la Caritas. «Di fronte al volto di chi soffre e, soprattutto di una bambina, non ci si può voltare da un’altra parte - commenta la direttrice Cecilia Scaffardi -. Interpellati da amici missionari, abbiamo offerto vicinanza e accoglienza, per contribuire a restituire un pezzo della sua infanzia rubata».

Non solo una rete di solidarietà. Non solo bisturi, ago e filo. Oltre a quelle necessarie per le 20 ore complessive di interventi (il principale ne è durato una decina), sono servite parecchie di dosi di anestetico per fare addormentare Speranza, mentre veniva visitata o medicata. Impossibile a chiunque farlo, senza averla sedata: anche a Laura Lombardi e a Francesca Caravaggi, le chirurghe che l'hanno operata (insieme con Del Rossi e Alberto Attilio Scarpa) con le quali ha stabilito il rapporto più stretto. Chi prima, chi dopo, tutti i medici della Prima anestesia diretta da Sandra Rossi hanno fatto chiudere gli occhi alla bambina, per farglieli riaprire ogni volta su prospettive migliori. Tra queste, anche quelle del centro di Parma, dove Laura Lombardi, un giorno, ha portato la piccola con sé. Le ha offerto un gelato e lei ha impugnato il cono come uno scettro di gioia. «Fondamentale in tutto questo - ricorda la chirurga - è stato Carmine, con la sua esperienza: abbiamo potuto operare con il maggior esperto in questo genere di interventi». Anche se Speranza, scoprendo di non essere più incontinente dopo l'operazione, le prime parole le ha avute per lei. «Dottora Laura» ha scritto sul quaderno. Per confidare che a sua volta, da grande, indosserà il camice. Quasi si sentisse già in debito con la vita.