CARCERE DURO
Superboss e killer feroci: i 65 del 41 bis a Parma. E c'è chi vuole anche il pullover in cachemire
Lontani dai territori in cui erano re o cortigiani fidatissimi. Ma anche separati dagli altri detenuti finiti dietro le sbarre. Sono i detenuti al 41 bis nei penitenziari d’Italia: 732 (a fine 2020 erano 759), tra cui 13 donne. Il carcere duro, con regole tutte sue, per mafiosi e terroristi, che esclude ogni tipo di beneficio. Dodici sezioni in tutto il Paese, compresa quella di via Burla, aperta nel padiglione occupato fino al 1995 dal reparto femminile. A Parma è passato il Gotha di Cosa nostra: Totò Riina, il capo dei capi, morto nel novembre 2017 all’ospedale Maggiore, e il suo successore, Zu Binnu, Bernardo Provenzano, trasferito poi a Opera dove se ne è andato nel luglio 2016. Ma in via Burla ha trascorso gli ultimi mesi anche Raffaele Cutolo, il fondatore della Nuova camorra organizzata.
Anche Matteo Messina Denaro, spedito all’Aquila dopo l’arresto, potrebbe essere portato a Parma. E se così fosse si dice che la cella a lui destinata sarebbe quella di Riina, visto che era stata dotata a suo tempo di un letto adatto a chi è in condizioni critiche. Ma al di là dell’arrivo, più o meno probabile, del padrino di Castelvetrano, sono 65 i detenuti al 41 bis in via Burla: condannati o imputati per associazione mafiosa, in molti casi con un «fine pena mai».
Boss e gregari, sicari sanguinari, ma anche sodali che non devono fare i conti con ergastoli ostativi. E tra i nomi di spicco c’è quello di Sandokan, alias Francesco Schiavone, il boss del clan dei Casalesi, re indiscusso della Terra dei fuochi. Gli uomini di camorra costituiscono il maggior numero di detenuti al 41 bis in tutta Italia, subito dopo vengono gli ‘ndranghetisti e poi gli appartenenti a Cosa nostra. E proprio tra le figure di primo piano della mafia siciliana recluse a Parma c’è Antonino Madonia, condannato per gli omicidi di Pio La Torre, del generale Dalla Chiesa, del giudice Chinnici, del vice capo della Mobile di Palermo Ninni Cassarà e per la strage di Pizzolungo, oltre che per il fallito attentato a Falcone all’Addaura. Ma la lista dei nomi eccellenti continua con Salvatore Lo Piccolo, il «barone» a cui rispondevano i clan di Cosa nostra insediati nel Nord Italia; Salvatore Biondino, l’autista di Totò Riina; e Antonino Cinà, il medico del padrino e l'uomo del papello, secondo l'accusa, nella trattativa Stato-mafia.
Criminali dal passato sanguinario e potenzialmente ancora pericolosi, considerando che rimangono al carcere duro. Ma anche, nella maggior parte dei casi, piuttosto anziani. In una rilevazione fatta qualche anno fa da Roberto Cavalieri, garante regionale dei detenuti, l’età media era di 63 anni. E all’interno del carcere è presente un Servizio di assistenza intensiva con 9 posti letto. «Spesso si tratta di persone con problemi di salute difficilmente gestibili all’interno e quindi poi si pone il problema del trasporto in una struttura ospedaliera esterna, con tutto ciò che questo comporta per quanto riguarda scorte e presidio in ospedale - sottolinea Cavalieri, dal 2014 al 2022 già garante comunale dei detenuti -. La maggior parte delle lamentele dei detenuti al 41 bis riguarda infatti il ritardo nell’espletamento di alcuni esami clinici, anche se questo non significa che ci siano inefficienze da parte dell'Ausl, oltre alle difficoltà, a volte, di poter utilizzare i pc per motivi di studio o di avere libri. Un altro problema è quello di alcuni giovani detenuti costretti a trascorrere l’ora di socialità con i boss anziani».
Gli accompagnatori delle due ore di socialità al giorno di cui possono godere i rinchiusi al 41 bis: le cosiddette «dame di compagnia» obbligate a stare accanto ai super boss durante le loro passeggiate solitarie in cortile. Sono sempre le stesse persone, per ragioni di sicurezza, e non sono sodali della stessa associazione, come era capitato ad Alberto Lorusso, l’affiliato alla Sacra Corona che accompagnò Riina durante le sue camminate nel cortile del carcere di Opera. Il cerchio si allarga quando si tratta di personaggi meno in vista: le due ore di socialità quotidiana si passano in gruppi di quattro persone scelte dall’amministrazione penitenziaria.
L’unica parentesi fuori dalle celle. E anche i colloqui con i familiari sono ridotti al minimo: un solo incontro al mese senza alcun contatto fisico e con la presenza di un vetro divisorio. D'altra parte, sono proprio i legami con l'esterno che vanno recisi, così come vanno impediti messaggi e ordini. «A volte, però, si registrano cose eccessive: non avere la foto di un nipote oppure dovere attendere due anni per ottenerla, ma anche dover inoltrare richieste su richieste per far lucidare una fede nuziale che si vuole portare, non può non farti pensare che sia una stortura», sottolinea Monica Moschioni, responsabile carcere per la Camera penale di Parma e già difensore di Walter Schiavone e Raffaele Cutolo, quando erano al 41 bis a Parma.
Un reparto gestito dal Gom, il Gruppo operativo mobile della polizia penitenziaria che risponde direttamente al Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria. «Il regime funziona ed è un baluardo alle infiltrazioni mafiose interne ed esterne, anche se poi è chiaro che ci si scontra sempre con i problemi organizzativi più complessi di un carcere di queste dimensioni», spiega Errico Maiorisi, vice segretario regionale del Sappe.
Un paese rinchiuso alla periferia della città: oltre 700 detenuti, a regime, e centinaia di poliziotti penitenziari. Un mondo di cui spesso nemmeno ci accorgiamo.
Georgia Azzali
Quando Scarface in cella chiese di avere un pullover in cachemire
E' l'uomo della villa di Scarface. Aveva visto e rivisto Al Pacino nei panni del Tony Montana del film di Brian De Palma e l'aveva voluta così la sua magione a Casal di Principe: 850 metri quadrati su un'area complessiva di 3.400, una grande doppia scala all'ingresso, un'enorme vasca da bagno posizionata sopra tre gradini, oltre all'imponente piscina. Lui è Walter Schiavone, 61 anni, fratello di Sandokan, capo dei Casalesi: uno dei tanti passati nelle celle del 41 bis di via Burla. Finito al carcere duro, con vari ergastoli sulle spalle, non ha però perso la passione per il lusso. Si narra che una decina d'anni fa, quando era a Parma, si sia lamentato più volte del fatto che il pullover di cachemire blu che aveva deciso di acquistare faticasse ad arrivare.
I capricci del passato che resistono anche alla tomba del carcere duro. L'ostentazione del potere (criminale) anche quando hai le sbarre davanti a te. E forse anche un modo per rimanere attaccati a uno spettro di normalità. «Quando assisti un detenuto al 41 bis che non ha processi in corso - sottolinea Monica Moschioni, già difensore di Walter Schiavone e Raffaele Cutolo - ti occupi sostanzialmente del mantenimento dei rapporti affettivi familiari e delle problematiche di salute. La cosa che mi aveva colpito, nel caso di Schiavone in particolare, perché invece Cutolo era già in condizioni molto critiche, era la necessità di voler conservare la quotidianità, mantenendo un contatto con il nipote o un familiare in occasione per esempio di un compleanno. E' anche un modo per non impazzire in quelle condizioni».
Eppure, il maglione in cachemire resuscita i ricordi di Scarface. L'immagine che si perpetua anche dietro le sbarre.