Il caso

Morì di Covid, il tribunale di Parma: «L'assicurazione deve pagare»

Roberto Longoni

Morire di Covid non significa soccombere a una malattia più o meno lunga, ma avere la vita spezzata da un infortunio. Non sarà così sempre, certo: netta è innanzitutto la distinzione tra chi è morto «di» Covid e chi «con» il Covid, avendo il fisico già minato da patologie pregresse. Ma nel caso di Mario (il nome è di fantasia) così è stato, come ha stabilito il tribunale di Parma in un verdetto destinato a concorrere a fare giurisprudenza a livello nazionale, per la chiarezza con la quale è stato motivato e per come la parte richiedente rappresentata dall’avvocato Francesca Barbuti, che si è avvalsa della consulenza del medico legale Nicola Cucurachi, ha blindato le proprie ragioni. Una sentenza che per le assicurazioni rischia di rappresentare l’inizio di una nuova pandemia: questa volta di cause legali, dall’esito a dir poco incerto in molti casi.

Mario fu uno dei primi ad andarsene, portato via dal Covid nel marzo del 2020. Non era né diabetico né obeso, né aveva alcuna patologia pregressa. Era previdente come marito e padre: sapeva bene che qualcosa di improvviso e imprevisto può sempre accadere. Così, nel 2015 aveva stipulato una polizza sulla vita, in favore della famiglia. Cinque anni dopo, il Covid ci mise solo una ventina di giorni - nonostante il ricovero in terapia intensiva in Rianimazione - a soffocargli la vita per sempre. E ora ci sono voluti oltre due anni, perché alla vedova fosse riconosciuto ciò che le spettava di diritto.

Non è che il primo grado di giudizio: è facile immaginare che chi ha incassato un verdetto avverso ricorra in appello. Con il rischio di veder lievitare anche i costi processuali (e le spese legali della controparte) che già ora è chiamato a pagare, come il giudice ha messo nero su bianco.

Incassate le condoglianze di rito, la vedova di Mario dall’assicurazione si sentì rispondere che non le sarebbe spettato alcun indennizzo. «Suo marito è morto di malattia» aveva allargato le braccia chi le mostrava le clausole della polizza.

Fu allora che la donna si rivolse a Francesca Barbuti. Il legale l'ascoltò, lesse anche le clausole più microscopiche del contratto e decise di rivolgersi a Cucurachi, affinché il dottore affrontasse gli aspetti più strettamente medico-legali. «Questo – sottolinea il docente di Medicina legale all’Università di Parma – è stato fin da subito un tema di grande importanza per i professionisti del mio settore. Tanto che ancora in pieno lockdown mi trovai a moderare un convegno, ovviamente in streaming, su come il Covid dovesse essere inteso». Le assicurazioni avevano preso posizione, mettendo le mani avanti senza indugio: doveva essere considerato una malattia.

«In realtà – spiega Cucurachi – quali siano i requisiti dell’infortunio è ben stabilito dalla medicina e dalla legge. Anzitutto, la sua causa deve essere accidentale (e di certo un’infezione di questo tipo lo è) oltre a essere provocata da qualcosa di esterno. In terzo luogo, deve essere violenta. Ora, nell’ambito della medicina legale, la violenza non è solo intesa come un pugno, un calcio o una bastonata. No, è tutto ciò che produce danni in un tempo limitato, come lo schizzo di una sostanza dalla quale si può essere accecati. E l’aggressione del Covid è violenta: il virus entra nell’organismo e lo infetta in brevissimo tempo».

«E pensare – sottolinea Francesca Barbuti – che l’Inail si era ben presto pronunciata per il riconoscimento dell’indennizzabilità, in caso di contagi sul lavoro. Ben diversa, invece, la posizione delle assicurazioni che hanno sempre sostenuto la tesi che il Covid non sia che una malattia, respingendo quindi qualsiasi richiesta da parte degli assicurati o dei loro eredi». A questo punto, la vedova ha deciso di trascinare in tribunale chi non voleva riconoscere l’indennizzo per la morte del marito (non ne facciamo il nome, ma poco importa: il fronte delle assicurazioni in merito ai risarcimenti dai danni da Covid, non solo mortali, è piuttosto compatto). Alla vedova nessuno potrà restituire il marito, ma l’indennizzo al quale aveva diritto sì, con il carico di giustizia rappresentato dal verdetto. «Una sentenza destinata a essere annoverata con altre e a fare giurisprudenza su questo tema delicatissimo – conclude l’avvocato Barbuti – . Rischia di essere un “precedente” scomodo per chi finora si è rifiutato di indennizzare il dovuto».

Roberto Longoni