L'ex primario del ps di Cremona

Cuzzoli: «L'inchiesta sulla gestione Covid? Non mi stupisce»

Chiara Cacciani

«Il primo pensiero? Mi lamentai subito, e pubblicamente, di misure sottostimate per il contenimento dell’infezione da Sars-Cov2: non mi stupisce ci sia un'inchiesta».

A parlare è Antonio Cuzzoli, oggi direttore scientifico della «Città di Parma» e specialista di riferimento in Endocrinologia e Ematologia. Arrivava da 20 anni di direzione di pronto soccorsi quando all'Asst di Cremona (Lombardia, dunque) giunse «la notizia che sconvolse noi operatori sanitari e che continuo a rivivere da quel 20 febbraio 2020».

Nella cronologia di informative che avrebbero dovuto far prendere provvedimenti urgenti a Governo e Regione Lombardia nella Bergamasca, il perito dell'accusa, il microbiologo Andrea Crisanti, cita il 27 febbraio. Lei parte dal 20?

E' il giorno, per noi drammatico, in cui venne chiuso l'ospedale di Codogno e i pazienti della zona arrivarono tutti a Cremona: troppi per la gestione sanitaria, terrorizzati e ammalati. Per 27 giorni non uscii di lì. E non perché fossi indispensabile sul fronte della cura, ma perché era indispensabile tenere il gruppo. Il pronto soccorso sembrava uscire dal racconto della peste di Manzoni. Il collega che visitò la prima paziente, finita in terapia intensiva, è morto. Ho avuto 20 medici ammalati in contemporanea, di cui tre molto gravi.

Come reagiste allora?

Con un grande lavoro di squadra. Facevamo due riunioni giornaliere, alle 9 e alle 15, per prendere le decisioni in base all'andamento della situazione, capace di cambiare di ora in ora. A due giovani caposala la prima sera feci cercare le mascherine di protezione. Dovevano esserci: la Sars nel 2003 e la Mers nel 2013 avevano solo sfiorato l'Italia, ma almeno ci si era attrezzati. E' grazie alle cose non utilizzate allora, se siamo sopravvissuti. Fui il primo a chiedere l'intervento della Protezione civile: il 21 mattina potemmo aprire il pre-triage. La direzione trovò subito camici e sovracamici, e con un collega infettivologo facevamo giornalmente formazione su come proteggersi. Abbiamo avuto contemporaneamente 60 pazienti in Rianimazione: nella normalità i posti erano 8, più 2 straordinari. In Medicina d'urgenza c'erano 22 pazienti sempre ventilati: ecco cosa vuol dire la modularità della risposta ospedaliera.

Dice di aver segnalato subito falle nella gestione della pandemia. Può spiegarlo?

La Cina ha celato il numero di morti e malati? Le migliaia di dichiarati erano sufficienti a richiedere un protocollo d'azione territoriale, organizzativo e terapeutico. Oltre a isolare in misura quasi dittatoriale ma necessaria le zone colpite, là costruirono un ospedale da mille posti in 12 giorni. Qui li chiusero. L'esempio vincente della prima fase è Vo', in Veneto (consulente Crisanti, ndr.): aperto un presidio diagnostico e chiuse le vie d'accesso. Prendere l'aperitivo in compagnia, lasciare andare allo stadio migliaia di persone o fuggire dalle zone “calde” verso altri luoghi è stata follia. Poi c'è la parte che riguarda le terapie.

Cosa, in particolare?

Alcune ricerche cinesi contenevano già delle indicazioni. Le morti del primo Covid erano causate da un processo tromboembolico: ecco l'importanza dell'eparina, che somministrammo nonostante non fosse ancora autorizzata. Ma si sottovalutarono anche altri tipi di farmaci, anche per questione di costi. Noi buttammo giù un protocollo con la radiologia, fondamentale per la diagnosi della polmonite interstiziale ma anche delle situazioni che preannunciavano un possibile aggravamento clinico. Non erano persone che potevano essere lasciate a casa, in attesa degli eventi: l'assistenza domiciliare partì dopo. In più, processavamo i tamponi anche per i pazienti con sintomi respiratori ma febbre meno elevata di quella indicata dal Ministero. Ecco, queste sono state norme di reale contenimento della malattia. Poi è chiaro: è stato uno tsunami spaventoso. Ma intanto non si era mai voluto prevedere, pensare a adeguare le strutture ospedaliere, fare piani territoriali: gli unici possibili per gestire una pandemia.

Come giudica l'aspetto dell'informazione alla popolazione?

Il Ministero ha dato linee di condotta chiare e fattibili. Ma fornire ossessivamente la percentuale di morti e contagi è stato un eccesso. Ha un po’ assuefatto e creato una sorta di passività, ottenendo in certi casi il risultato contrario a quello sperato.

Da medico cosa ha imparato dalla pandemia?

A curare senza timori burocratici o amministrativi, rispondendo a quello che era un dovere legale, deontologico e soprattutto morale, per dirla alla Kant. Ci siamo liberati di alcuni freni perché ci siamo resi conto di cosa vuol dire la sanità durante una guerra: intubare le persone nel corridoio, avere 40 pazienti in uno spazio per dodici, operatori che crollano dopo ore e ore di lavoro ininterrotto, molti che si ammalano. E cadere, anche. Perché siamo anche caduti.

Da uomo, invece?

Mi è rimasto il leggere gli occhi dei pazienti: spesso vedevamo solo quelli e altrettanto loro di noi. Non posso dimenticare una signora che accompagnò il marito in fin di vita. La incontrai mentre correvo nel corridoio e mi bloccò per dirmi: “Mio marito...”. Lo portammo dentro insieme a tanti altri, lo stabilizzammo, non morì. Lei tornò e mi disse: “Dottore, i suoi occhi sono stati per me l’assistenza maggiore”. Scusi se mi commuovo, ma forse è anche per questo che oggi mi occupo di altro».

A fine 2019 aveva fatto domanda di pensionamento e pensava poi di occuparsi di management sanitario. «Il Covid mi ha fatto cambiare idea. Oggi privilegio ancora di più il rapporto col paziente: prima ci era concesso un tempo medio di 7 minuti, ora le mie visite durano ore». Mentre resta la domanda: «Si sta facendo qualcosa a livello di sanità per non trovarci impreparati nel futuro?»

Chiara Cacciani