LA STORIA
Pepèn, le «roi des panèn» compie 70 anni
Settant'anni e non sentirli. Perché è settant'anni fa, all'inizio del 1953, che Pepèn Clerici e la moglie Lidia hanno l'intuizione di trasformare il «buchetto» di borgo Sant'Ambrogio che avevano aperto nel 1945, in un posto dove i parmigiani possono mangiare panini «espressi», trasformandolo in quella che oggi si chiamerebbe paninoteca. Una scelta consacrata da uno slogan azzeccato, celebrato in un manifesto pubblicitario che diceva, testuale, «Pepèn, le roi des panèn». Uno slogan semplice e diretto dietro al quale c'erano tanto lavoro e tanta genialità. Perché pensare di vendere panini «creativi», pizza al trancio e tartine sfuse 70 anni fa in una sorta di locale «fast food» ante litteram poteva sembrare una follia. E invece, 70 anni dopo, Pepèn è ancora vivo e lotta in mezzo a noi ed è diventato l'emblema della parmigianità. In borgo Sant'Ambrogio sono passate e continuano a passare intere generazioni di parmigiani e di turisti che, arrivati da fuori, trovano questo indirizzo indicato come uno dei «templi» del buon mangiare parmigiano. La «carciofa» e lo «spaccaballe» hanno tra i giovani la stessa notorietà dei tortelli d'erbetta o degli anolini. Una tradizione rafforzata dalla continuità della gestione e dalla magia di un luogo dove, assieme a panini e pizze o carciofe si servono battute e simpatia a quintali. Con il profumo di buon mangiare che esce dal borgo e arriva fino a via Repubblica a fare da irresistibile richiamo
Una licenza nata nel 1933
Risale addirittura al 1933 la prima licenza di esercizio pubblico all'indirizzo dove ancora oggi si trova «Pepèn», all'inizio di borgo Sant'Ambrogio. E' lì che nel 1945, in una Parma vogliosa di dimenticare i terribili anni della guerra Pepèn e Lidia Clerici, marito e moglie rilevano il bar dal fratello di Pepèn, Italo. Il nome era «Un franc», derivato dal costo di un panino e un bicchiere di vino. Da subito Pepèn si fa notare per la sua creatività: propone tartine al caviale, al salmone e all'aragosta unite alla cucina tradizionale della cuoca Marianna e della moglie con anolini pasticciati, tortelli e gnocchi. Il posto è poco, si mangia in piedi su piatti di carta, in una confusione epica. Eppure Pepèn diventa in poco tempo un punto di ritrovo. Apertura alle 6 di mattina, chiusura a notte tarda, anche con servizio di dopoteatro. Passo dopo passo «nel 1953 - spiega Stefano Ferrari che oggi è il gestore assieme ai soci Riccardo Meneguz e Barbara Peschiera - Pepèn decide che il locale diventi ufficialmente una paninoteca. E il 15 agosto del 1955, perché allora si lavorava anche a ferragosto e persino a Natale con solo la pausa pranzo prende mio papà Gino come garzone di bottega».
L'addio di Pepèn
«Nell'ottobre del 1962 (che quasi come un segno del destino è anche l'anno di nascita di Stefano ndr) - prosegue il figlio di Gino - Pepèn decide di lasciare Parma per motivi di salute e di aprire un nuovo locale a Leivi, sopra Chiavari e chiede a mio papà se vuole rilevarlo. Mio papà chiama suo cognato Renzo Ferri, che lavorava in Svizzera in tutt'altra attività e gli chiede se vuole diventare suo socio. Renzo accetta, torna a Parma e nasce così “Gino e Renzo”. All'inizio avevano cambiato il nome perché pensavano che “Pepèn” non avrebbe gradito che venisse mantenuto il suo. Ma poi è stato proprio lui, qualche anno dopo, a “benedire” il ritorno del suo nome per la sua “creatura”».
Una storia di famiglia
Con Gino e Renzo lavorano le rispettive mogli (che sono sorelle ndr), nell'«antro delle meraviglie», la piccola cucina nel seminterrato in cui ancora oggi si sfornano pizze, carciofe e wurstel a getto continuo. Il primo novembre del 1961 (anche qui un giorno festivo) arriva anche il giovanissimo Giancarlo «Gianni» Peschiera, baffuto e sorridente, a sua volta «garzone di bottega» che poi per più di 50 anni sarà dietro al bancone a sfornare panini e battute in vero «djalett pramzan». Successo dopo successo, «Pepèn» continua senza scosse fino al 1992, quando Renzo lascia per motivi di salute e arriva Dino Meneguz ad affiancare Gino e Gianni (nel frattempo diventato socio) nella gestione. E' il momento in cui viene abbandonata la cucina e si punta tutto su panini e specialità al banco. Qualità del cibo e atmosfera calorosa sono la costante che porta avanti «Pepèn» fino ai giorni nostri nel segno della continuità. Nel 1996 entra il figlio di Dino (purtroppo scomparso prematuramente), Riccardo, oggi «frontman» del locale. «Nel 1997 - dice Stefano - mio papà mi prende a lavorare con lui e mi manda in cucina “pr'imparèr c'mè s'fà a lavorèr”. Dieci anni dopo gli dice «vena sù clé ora» e lo mette dietro il banco, mentre quando Gianni va in pensione lascia il testimone alla figlia Barbara. E, giusto per rassicurare i parmigiani, da «Pepèn» sono già arrivati a lavorare anche il figlio di Stefano e quello di Ricky. Il futuro? «Continueremo sulla strada che dura da 70 anni - dice Stefano - e cioè l'idea di “coccolare” i nostri clienti e di provare vie nuove, come la consegna a domicilio attivata durante il Covid e l'apertura del bar qui a fianco». Con una certezza di fondo: che «Pepèn» resterà sempre «Pepèn». E allora, auguri: e altri 70 di questi anni a questo tempio della parmigianità senza il quale Parma non sarebbe più la stessa.
Gianluca Zurlini