Intervista

Thoeni: «Vi racconto la mia Valanga Azzurra»

Luca Pelagatti

Qualche sgarbato, convinto di essere ironico, si prese pure la briga di contarle: a Gustavo Thoeni dopo l'oro olimpico in slalom gigante a Sapporo, vennero mitragliate dai giornalisti un centinaio di domande. Lui a circa ottanta rispose solo con un monosillabo. «E' vero, parlavo poco. Ma Ingemar Stenmark, nato poco lontano dal Circolo polare artico, era ancora più taciturno di me».

Trafoi, profondo Alto Adige tra l'Ortles e lo Stelvio, nella sala da pranzo dell'hotel Bella Vista: legno tutto intorno, camino acceso e il campione in velluto dietro ad un tavolino. Tra poco infilerà la tuta e, rituale immutabile anche a 72 anni, andrà a disegnare serpentine in pista con i clienti del suo albergo. Ma prima, molto più disponibile di quanto millanti il luogo comune, si offre al taccuino e alle domande a cui, spesso, replica con un largo sorriso. Inutile pensare male: se uno cerca il proverbiale montanaro che bofonchia resterà deluso.

«Certo che ancora mi piace seguire le gare, le guardo volentieri in tv. Mi affascinano campioni come Marco Odermatt. Ma lui è come Stenmark, non vorrei affrontarlo in pista: non sbaglia un colpo», ride.

E allora stop: schiacciamo il fermo immagine e blocchiamo la discesa. Che parlare con Thoeni è anche questo, avere la fortuna di andare avanti e indietro nella storia dello sport bianco. C'era un prima e c'è un dopo. E poi c'è lui: eterno presente.

«Io ho iniziato a sciare a tre anni, qui dietro l'albergo di famiglia, proprio sotto la chiesa di Trafoi. Si batteva la neve a scaletta e si veniva giù». Detto così pare poca cosa ma il destino sta scritto proprio nelle sfumature: «Se siamo diventati slalomisti è per questo: non potevamo battere la pista di una discesa. Al massimo di uno slalom».

Assi di legno sotto i piedi, tanta volontà, un papà maestro di sci e il dna scritto nel ghiaccio. Allora la neve non era timida come oggi, quando cadeva c'erano da spalare enormi dighe bianche. «Ci allenavamo da soli, i più grandi mettevano giù le porte». Dettaglio fondamentale: al posto dei pali si usavano i rami dei pini.

«Già quando ero diventato un atleta, nel 1969, andai in Australia per partecipare a delle gare. Per arrivare ci vollero cinque tappe e io partii con tre paia di sci». Oggi un ragazzino qualunque che si da arie nello sci club del paese ne ha dieci volte tante. E girano somme che all'epoca nemmeno immaginavi.

«Per noi era fondamentale il gruppo sportivo militare che ci accoglieva. Ci dava sicurezza. Che di soldi ce n'erano pochi».

Già, perché adesso è un mondo adulto, si vince da professionisti. All'epoca, roba da tv in bianco e nero e cuffie di lana vintage in testa, essere dilettanti era il dogma. «Ricordo ancora i cerberi dell'organizzazione che, all'arrivo delle Olimpiadi in Giappone, con brutalità ci strappavano di mano gli sci. Perché non si vedessero i marchi».

Retaggio decubertiano o ipocrisia, chi lo sa. Ma è però certo che quando Thoeni conquistò i suoi tanti trionfi – quattro Coppe del Mondo dal 1971 al 1975, quattro Mondiali, tre medaglie olimpiche, 69 podi in Coppa - di colpo, comparvero anche le folle. E l'Italia, fino ad allora terra sospesa tra battigia e collinette, imparò il brivido della Valanga Azzurra. Quando Gustavo - era il 23 marzo del 1975, Domenica delle Palme - vinse su Stenmark nel parallelo di Ortisei la penisola si scopri popolo di poeti, eroi e discesisti. A ripensarci oggi che una biondina del Colorado cancella il record di Ingo, lo svedese che pareva imbattibile, fa quasi strano. Si, perché la divina Mikaela Shiffrin ha battuto in queste ore il primato di Stenmark ma Thoeni, allora, batteva Stenmark. Cosa sta succedendo? «E' accaduto che lo sport è cambiato, ora si usano materiali differenti, anche lo stile si è uniformato. Ai miei tempi le piste erano tutte gobbe, non c'era la neve artificiale e ogni tanto uscivano i sassi». Insomma, la preistoria è l'altro ieri ma Thoeni che lo sa non cede alla tentazione di ergersi a padre nobile. «Io sono fuori dal giro da tanto tempo, non me la sento di dare giudizi sui campioni di oggi: posso solo dire, parlando delle nostre atlete più forti, che la Goggia mi colpisce per il coraggio, la determinazione. La Brignone per la capacità di essere polivalente, la Bassino per lo stile splendido della sua sciata».

Ma come? Nessuna critica, nessun appunto? Meglio di no, oggi come ieri quella che conta è la solita, eterna legge: si scende per vincere. E qui a Trafoi, finisterre tra le cime, uno che ha vinto tutto lo sa benissimo. «Diciamo che parliamo di grandi atleti». Saggezza di chi vive nelle terre alte ma non solo. Perché campioni si nasce; ma non bastano i quadricipiti. Serve anche l'intuito.

«Mi ero ritirato dalle gare e un giorno vidi sciare un ragazzo che neppure finì la manche. «”Chi è?”, chiesi. “Lascia stare: è di Bologna ed è un figlio di papà”, mi risposero. Io però avevo visto qualcosa, mi parve subito diverso. Decisi di allenarlo». Inutile aggiungere altra poesia a quello che è già mito: quel figlio di papà col peccato originale della pianura era Alberto Tomba. Il risultato è che il silenzioso altoatesino di Trafoi e l'esuberante emiliano di Castel de' Britti, insieme, hanno scritto nel ghiaccio altre pagine indimenticabili. Per una discesa di Tomba si fermò persino il Festival di Sanremo: inutile aggiungere altro. «Alberto, è vero, dava spunti ai giornalisti ma in realtà eravamo più simili di quanto molti allora avessero capito», conclude per riassumere quell'ennesima stagione di successi.

Un palmares unico che qui, nell'albergo della famiglia Thoeni, gestione in rosa curata dalle figlie del campione, sta riassunto nella sala da pranzo, nel corridoio della memoria. Mentre fai colazione con speck e spremuta brillano le quattro Coppe del mondo rinchiuse dietro un vetro. Se ci aggiungi la sfilza di altre medaglie e trofei pare di bere il cappuccio in un museo. La montagna intorno, discreta , ringrazia.

Certo, umana debolezza, la Valanga Azzurra di allora si sciolse tra litigi e incomprensioni e di quella storia restano anche pagine molto amare. Ma Gustav Thoeni da Trafoi non si scompone e non rinnega nulla. Ogni mattina, di buon ora, arriva nel suo hotel, controlla quello che accade intorno, legge il giornale e, se si può, infila gli sci, si concede un caffè al rifugio mentre gli ospiti, increduli, ne approfittano. «Vado a sciare con Thoeni» scrivono via sms agli amici. E non sanno, o non vogliono sapere, di quando a sciare con lui erano Pierino Gros, Stenmark, Erwin Stricker o «Kaiser» Franz Klammer. Allora non c'erano i cellulari, non c'erano i social. Ma esistevano già, ed esisteranno sempre, quelli come Gustav Thoeni: fatti dalle stessa sostanza dei sogni. Ovvero di neve e di roccia.

Luca Pelagatti