Testimonianze

I curdi a Parma: «Non ricordatevi di noi solo quando moriamo»

Chiara Cacciani

Per descrivere il loro «Paese che non c'è» (e nemmeno - poi lo declineremo meglio - vorrebbe esserci «classicamente»), pensano ai più famosi quattro Cantoni. Sono divisi tra Turchia, Siria, Iran e Iraq, il Kurdistan e il suo popolo. «Con questa particolarità - dice Hisam Allawi, poeta e mediatore culturale di Ciac -: quattro Stati che si dividono su tutto, anche su quante volte al giorno pregare, ma che sulla questione curda trovano subito alleanza». Ossia bombardamenti, repressione, persecuzioni, diritti negati. Considerati più pericolosi dell'Isis che - proprio loro - hanno sconfitto. E ora ci si mette anche il terremoto. Tanto piùche di fronte a morte e distruzione la geopolitica contiua sulla sua strada: niente democrazia nemmeno per gli aiuti umanitari. «Stiamo provando in tanti modi - conferma-, ma è ancora molto difficile».

Sul telefono e negli occhi hanno tutti una e tante immagini di persone e luoghi cari che il sisma ha violato. E rafforza l'appello che emerge nei racconti «privati» di Allawi, di Serkan Xozatli e di Leyla Akgul. C'è il «là» del divieto di parlare la propria lingua, degli arresti, degli interrogatori, della lotta per la dignità, delle famiglie separate per decenni. E poi c'è il «qui» in cui ricordano e ci ricordano la Parma accogliente di ieri e di oggi. A cui sono grati e da cui continuano la battaglia di figli e figlie di un popolo «anomalo» persino nei sogni: non un Kurdistan a sé con confini politici delineati, ma una Confederazione democratica mediorientale in cui uguaglianza nella differenza e libertà siano il pane quotidiano. Così come la pace: parola che non conoscono più da troppo tempo.

«In Turchia dovevo essere una roccia, non c'era tempo per la paura: era l’unico modo per salvarmi ai check-point e durante gli arresti. Arrivata qui ho imparato che essere anche fragile è un diritto. E anche averla, la paura». Era tipografa

Leyla Akgul, arrivata in Italia nel 2002, oggi 46 anni e da 4 mamma a tempo pieno. «A Izmir lavoravo nel giornale filocurdo. Le sedi dei giornali sono state fatte esplodere più volte e io, non giornalista, arrestata quattro: giorni di interrogatori e torture. Alla fine dell’ultimo arresto ho deciso che volevo un’altra vita».

La sua domanda di asilo ci ha messo tre anni per arrivare in commissione. «Come vivevo? Don Luciano Scaccaglia mi ha dato una stanza nella canonica della chiesa di Santa Cristina, dove ospitava persone in difficoltà. Mi mettevo in fila alla Caritas per il cibo e i vestiti, facevo lavoretti, sfruttata: senza un documento non sei nessuno. Non sono stati momenti facili ma almeno non rischiavo la vita». L'ha salvata - dice - iniziare a frequentare Forum Solidarietà, Ciac e l'associazione Vagamonde, coi suoi progetti di teatro sociale che mettono insieme donne native e migranti. «E lì ho trovato davvero una famiglia».

E' invece rimasto «incastrato» qui Hisam Allawi. Nel 2011 era venuto a passare un mese con amici conosciuti grazie al suo secondo lavoro, la guida turistica ad Aleppo, Siria, e la guerra gli ha impedito di rientrare. Racconta del primo, di mestiere: «Noi curdi non possiamo parlare in madrelingua e dovevo per forza migliorare il mio arabo: dalla laurea in lingua e letteratura sono passato ad insegnarlo a chi arabo non è». Torna sempre, nelle sue parole di (anche) poeta, la lingua negata. Ricorda la settimana di arresto durante il servizio militare: si era lasciato scappare, per la sorpresa, un saluto in curdo a un compaesano appena arrivato. E poi c'è l'«invidia» di oggi: «La prima volta che ho potuto urlare “Sono curdo” è stato qui, a Parma. E ora che in Rojava si può fare senza ansia, io non sono là». Le comunicazioni con la famiglia restano difficili: già nella normalità oltre il sisma, gli attacchi turchi prendono di mira proprio le reti di comunicazione, «e ogni volta si ricomincia da capo a ricostruire». Ma anche in Rojava a agosto è stata festa quando hanno saputo che era il primo curdo candidato al Senato, con Unione popolare.

Referente di Rete Kurdistan, è qui da più tempo ma invece ancora senza cittadinanza italiana, Serkan Xozatli: «Se lo chiede alla Turchia, io sono un terrorista. Da parte mia, invece, sono una persona che ha lottato per i propri diritti, per il diritto a parlare la mia lingua, per la mia cultura, per la mia vita».

Arrestato due volte e messo in un carcere, quel «sono stato torturato» lo dice in un soffio. Colpevole di partecipare alle manifestazioni per la liberazione dei prigionieri politici e contro le persecuzioni e la negazione dei diritti, era ormai un ricercato. «Sono scappato e sono rimasto nascosto per mesi prima di trovare un canale d'uscita per l’Europa: 6 giorni e 7 notti su una nave, da Istanbul alla Calabria». Era il 1997 e la strada verso Parma è partita da Roma, al centro culturale Ararat dove ha incontrato il presidente di Ciac Emilio Rossi: «Avevano un progetto rivolto a chi aveva subito torture e aveva bisogno di cure: mi ha portato qui il 17 luglio 2002, e per alcuni mesi sono stato ospite a casa sua, fin dopo l’operazione chirurgica alla schiena». Nel mentre, ogni telefonata alla famiglia corrispondeva a una visita della polizia ai genitori. Dopo aver gestito uno dei negozi di kebab più amati, in via D’Azeglio, ha poi fatto altri lavori compatibili con la sua salute ma soprattutto si dedica a organizzare incontri, mobilitazioni, assemblee dedicate a far conoscere la situazione.

Se sul Kurdistan e sul suo popolo oggi c'è meno silenzio, in realtà è grazie alle donne. Quelle che a Kobane, in tutto il Rojava e nella Shengal raccontato da ZeroCalcare, erano in prima linea, simbolo della sconfitta dell'Isis. E' di origine curda il motto «Donne vita libertà», ormai tradotto in tutte le lingue del mondo e gridato in diversi angoli del globo, piazza Garibaldi compresa. Ma loro si stupiscono dello stupore occidentale: «Da noi le donne sono sempre state sullo stesso gradino degli uomini». Però- aggiungono- il loro esempio è stato importante, e rispetto all'Isis il mondo ha un debito con loro». Come onorarlo? «Non ricordatevi di noi solo quando moriamo. Sostenete la nostra lotta per i diritti. Un'occasione sono le prossime elezioni in Turchia». In corsa di nuovo quell'Erdogan che gode del made in Italy delle armi, ad esempio. Quella Turchia che è membro Nato.

Intanto, se a causa della situazione in Siria Hisam non ha mai rivisto i familiari, Leyla lo ha fatto da poco, forte della cittadinanza italiana e del desiderio di far conoscere alla sua bimba quella parte di sè. Serkan, invece, nel 2018 ha incontrato i genitori: dopo 22 anni si sono riabbracciati su un'isola greca. E non servono parole in più.

Chiara Cacciani