SUPERSTIZIONI

Il giorno 17 e il grande Carlo Bergonzi

Vittorio Testa

«Miei signori sono molto spiacente, ma il 17 io non canto proprio niente».

Il sovrintendente dell’Arena di Verona, Valerio Cappelli, rimase folgorato dall’imprevisto diniego canticchiato in rima del carissimo Carlotto: e cioè Carlo Bergonzi, così ribattezzato dalla grande amica Renata Tebaldi, sua compagna di corso al Conservatorio di Parma. Un’intesa e un affetto, quelli tra la «Voce d’Angelo» e il più grande tenore verdiano, ma non solo, del Novecento, che produrrà meraviglie sonore, serate da far venir giù i teatri.

L’amicizia era molto profonda tra questi grandissimi artisti, che finita la lezione andavano in Pilotta a prendere la corriera del loro pendolarismo, lei per le colline salubri di Langhirano, «ridente» paese dell’Appennino parmense, respirante l’aria fina fina di lassù, del «prosciuttEtere» dagli appetitosi effetti. Lui, il Carlotto già solido come una quercia padana, radicata mille metri sotto la sabbiosa terra bassaiola, nato nel dedalo labirintico degli argini di Vidalenzo, paesino che non trovando granché per esserne «sorridente», mostrava piuttosto un’aura «sogghignante» nel vedere gli abitanti alle prese con nebbioni, freddo becco, e fiumi ghiacciati d’inverno, d’estate afa talmente grassa e densa da sentirsi, come canta quell’altro grande artista che è Paolo Conte, «in un bicchiere di acqua e anice». No, niente da fare: il Sovrintendente promise mare e monti, ordinò champagne millesimato, caviale del Volga e profumi per la signora Adele la Adele Loren, come l’aveva ribattezzata il sommo direttore d’orchestra Leni Bernstein, colpito dall’avvenenza della ragazza ubertosa, la Adele degli Aimi, che diverrà la gelosissima, imperiosa e per Carlo preziosissima custode e moglie severa e indispensabile. Insomma, alzi la mano chi stamattina guardando l’agenda o il calendario, non ha provato o proverà una seppur minima curiosità al riaffacciarsi del 17: numero che soprattutto sposo di Venerdì minaccia dissesti e guai.

Ma per gli israeliti, per esempio è fonte di speranze fortunate. Per i cabalisti e i seguaci di Pitagora è una jattura infilatasi tra il 16 e il 18, giorni numerali da leccarsi i baffi.

O 17 o 13 o altri numeri, la superstizione è padrona di molte menti. Anche e soprattutto le menti altolocate e anche le Regine addirittura. La regina Maria Antonietta era suggestionata dal numero 4. Si sposò il 16 maggio (16 > 4 x 4) con Luigi XVI (16 > 4 x 4), venne ghigliottinata il 16 ottobre (16 > 4 x 4). Il presidente degli Stati Uniti Dwight Eisenhower odiava il numero 7: in quel giorno non prendeva decisioni importanti, mai pranzi ufficiali. E tuttavia il suo amuleto era un piccolo numero 7 di metallo, fin da quando faceva il servizio militare.

Mentre Gabriele d’Annunzio detestava il numero 13, come milioni di altri superstiziosi. Se il vate doveva scrivere quella data si tutelava con un 12 +1. La regina Caterina de’ Medici, sposa di Enrico II, era superstiziosa: a un pranzo di gala in suo onore a Parigi, nel 1549, pretese che i cibi dovessero essere divisibili per tre, il suo numero perfetto: «33 arrosti di capriolo, 33 lepri, 6 maiali, 66 galline da brodo, 66 fagiani, 3 staia di fagioli, 3 staia di piselli e 12 ad essere bollati».

Gli antichi Romani erano piuttosto superstiziosi. Veniva considerato di cattivo augurio rovesciare vino, olio e acqua o incontrare per strada muli con un carico di ipposelino (una pianta che ornava i sepolcri); portava sfortuna un cane nero che entrava in casa, un topo che faceva un buco in un sacco di farina, una trave della casa che si spaccava senza motivo. E tutti, proprio tutti (ce lo dice Plinio il Vecchio), dopo aver sorbito un uovo ne bucavano il guscio, o lo spaccavano. Gli amuleti contro la sfortuna, gli incantesimi malefici e le malattie erano diffusissimi. Molte case avevano sulla porta la scritta «arseverse» (forse da «averte ignem», contro il fuoco), per proteggersi dal pericolo dei frequenti incendi. E tanti ricorrevano a scongiuri contro la jella, anche degli insospettabili come Giulio Cesare.

Scrive Plinio che dopo che il suo carro si era rotto durante la celebrazione del Trionfo, recitava sempre uno scongiuro che ripeteva tre volte per garantirsi la sicurezza del viaggio: (carmine ter repetito…).

Ma torniamo dal nostro eroe, Carlotto Bergonzi, al quale piaceva raccontare il perché lui, il più grande Radames del Novecento, sempre trionfante, aveva cancellato il 17. A partire dal Metropolitan nel 1956, serata magica: «Era l’8 gennaio del '59 - raccontava il grande tenore bussetano nato a Vidalenzo - la sera prima, in albergo, sentivo dei brividi, in aumento al risveglio dopo una notte insonne, ma resto in camera, canto la sera e ho tempo fino alle... 17, ora in cui mi vesto, chiamo l’ascensore e quando arriva scopro di aver alloggiato diversi giorni, senza farci caso, al 17° piano. Pago il conto: 1.717 dollari, arriva il taxi: numero 17, il tachimetro segna 17 dollari quando mi sbarca davanti al al Metropolitan: allungo il dovuto della corsa al tassista, più la mancia che per tradizione sarebbe il 10 per cento: cioè 1 dollaro e 70 centesimi. Gli aggiungo 2 dollari in più per farla finita con questa persecutoria ''diciassettite''. Ma no – sono tutte fandonie, è il destino che sta già scritto, altro che il 17! Sto benissimo, faccio i vocalizzi, perfetti. E’ una serata in onore dei Reali del Belgio, c’è l’atmosfera dei cosiddetti ''eventi''. Guardo l’ora: mancano 7 minuti. Meno male che il 17 si è squagliato: è restato 7: cioè 2 minuti prima dei canonici 5 primi: giusto il tempo per il rito scaramantico degli affetti; rito di emozioni primarie celebrato in solitaria cerimonia». Maurizio e Marco Bergonzi, amici da sempre, avevano convinto il padre a svelare «il rito del bacio fisarmonica portabuono».

Due ore prima dello spettacolo, Bergonzi, devoto assiduo di Sant’Antonio da Padova, è già nel camerino e appende sullo specchio una statuetta a ciondolo e un cornetto rosso napoletano scacciajella. Quando manca mezz’ora vuole restar solo. e sussurra un bacio a ciascuna delle sette immagini custodite in un portafotografie «a fisarmonica»: «I suoi genitori, nostra madre, noi due figli, i genitori di nostra madre e un santino benedetto raffigurante Sant’Antonio da Padova», raccontano i figli. Ma quella sera Sant’Antonio gli dà buca. «Entro in scena - rammenta Bergonzi -. Ramfis va dal re a comunicargli il response della Dea Iside. E adesso tocca a me scolpire il recitativo di Radames: ''Se quel guerrier io fossi!!!'': ma no esce nulla dalla mia gola, soltanto suoni gutturali. Sono afono. Continuo mormoricchiando qualcosa. Mi aspetto una bordata di fischi e mi dico ''o mio bel pirla di un Carlo stasera ti sei giocato il Metropolitan''. Invece generosissimo il pubblico mi manda un applauso di incoraggiamento». Dunque mai più in scena di 17? «Certo ho annullato una recita di Aida all’Arena di Verona - diceva sorridendo ma non troppo il simpatico Bergonzi - un debutto al San Carlo di Napoli e uno all’Opera di Roma». Ma le sette fotografie? «Quelle non c’entrano - disse deciso Carlo Carlotto Bergonzi -. E poi, scusi, non mi è mai nemmeno sfiorata l’idea di mettermi contro Sant’Antonio… Oppure… mia moglie...».

Vittorio Testa