Intervista
La parmigiana Cecilia Alberti, una delle più quotate arbitre di tennis a livello internazionale
Con lo sguardo basso ma la testa sempre alta. Girata a destra e sinistra, a sinistra e ancora a destra rincorrendo la pallina. Sui seggioloni più rinomati, ora su quelli degli Internazionali d’Italia.
La vita di un giudice di sedia di tennis non si imbatte nella noia. E allora, tra colpi di scena e colpi da urlo in campo, prova a raccontarcela dall’alto del suo punto di vista.
Cecilia Alberti, made in Parma, parte integrante dell’élite team della WTA, ora intenta a dirigere gli incontri nella città eterna.
Cecilia, come è nato tutto?
«Da ragazzina giocavo a tennis (galeotto fu Fai della Paganella, in Trentino, e il contributo a Parma di Luca Pellacini e Roberta De Stefanis, ndr), e perdevo spesso al primo turno, mentre tutte le mie compagne di club andavano avanti. Per solidarietà tornavo a guardare i loro match, tutti rigorosamente lunghissimi e sotto a un sole cocente. In una di queste occasioni il responsabile provinciale di allora, Adriano Landi, si avvicinò e mi propose di partecipare ai corsi da arbitro. E da lì iniziò tutto. E allora smisi col tennis giocato concludendo la mia avventura sui campi del Tc President».
Come è la gerarchia e di quali step c’è bisogno per fare carriera?
«Il percorso è molto lungo. Ho iniziato con un corso serale provinciale per poi passare a un corso nazionale e a diversi corsi di aggiornamento. E tutto questo solo per essere arbitri nazionali. Le certificazioni, dal livello più basso a quello più alto sono in ordine White, Bronze, Silver e Gold. Io sono partita nel lontano 2005 col White per arrivare al Gold due anni fa».
Come sei di carattere?
«Piuttosto timida: questo lavoro mi dà una spinta in più».
Hai mai avuto paura di non essere all’altezza? Hai qualche rito prima delle partite?
«A volte si sbaglia l’approccio, ma sbagliando si impara. Si può anche pensare di non essere all’altezza, soprattutto con i match di cartello, quelli per intenderci trasmessi in diretta televisiva e che vedono impegnati i top players. Ma una volta arrivati in campo, quando ci sediamo, passa ogni paura. Mi spiace deluderti, ma non ho nessuna routine prima dei match e non sono molto scaramantica: se pensi che ho tre gatti neri a casa…».
Quali sono le esperienze che ti sono rimaste più nel cuore?
«L’emozione più grande è stata la prima finale di doppio diretta a Roma, su quello che penso sia il più bel campo del mondo, il Pietrangeli. Anni dopo, sempre a Roma, il mio torneo del cuore, è arrivata anche la finale di singolare femminile. La prima volta in una città nuova, poi, è sempre emozionante: indimenticabile il Giappone, con i suoi templi e la sua popolazione. e l’Australia, con la sua natura selvaggia. Ma come non ricordare Dubai, le cascate del Niagara e la muraglia cinese? Ci sono moltissimi posti, anche sconosciuti ai più, che potrei citarti...».
Cosa ti piace di più del tuo lavoro?
«È un lavoro molto affascinante, che ti permette di visitare i più bei posti al mondo e di vivere costantemente dove c’è il sole. Sicuramente questo e il fatto di vivere una vita cosmopolita sono gli aspetti migliori del nostro lavoro, dall’altra parte proprio il dover partire e magari perdere feste e celebrazioni importanti è l’aspetto più triste».
A proposito di “partire”, cosa ti porti dietro di Parma?
«Essendo mio marito di Cesena, ormai non vivo più a Parma da diversi anni, ma ho portato con me le nostre tradizioni e il nostro cibo. E a casa nostra si parla rigorosamente dialetto parmigiano».
«Un aneddoto?
«Anni fa a Wimbledon ho arbitrato per la prima volta Aryna Sabalenka. Tutto tranquillo con lei che vinceva 6-0 4-1. È proprio in quel momento che la vedo avvicinarsi per parlami. Io mi sono allertata visto che non stava succedendo niente di particolare in campo. Ho scoperto che per tutto il match avevo pronunciato male il suo cognome, peccato me lo avesse fatto notare a due giochi dalla fine».
Dulcis in fundo, se chiudi gli occhi qual è la prima immagine che ti viene in mente pensando al tuo lavoro?
«Sai cosa mi viene in mente? Il pubblico e le loro teste sincronizzate che si muovono all’unisono per seguire lo scambio. E il silenzio che scende all’improvviso quando sta per iniziare il punto».
Martina Tomat