INTERVISTA
Recalcati: «No all'indifferenza»
Un divano al centro del mondo. Dall’osservatorio dello studio di psicoanalista, Massimo Recalcati attraversa gli ultimi vent’anni di vita collettiva per affrontarne gli spettri. Sul solco del suo libro «A pugni chiusi» (edizione Feltrinelli, maggio 2023), s’avvia in un dedalo interrogativo: quale mondo stiamo lasciando alle generazioni future? Per incontrare anche Edipo Re al crocevia di una contemporaneità lacerata. Direttore dell’Istituto di ricerca di psicoanalisi applicata e fondatore, nel 2003, di Jonas Onlus (Centro di clinica psicoanalitica per i nuovi sintomi), autore di numerose pubblicazioni, collabora con Repubblica e La Stampa, insegna all’Università di Verona e allo Iulm di Milano. Recalcati sarà all’Auditorium Paganini di Parma domenica alle 18 e alle 21 (appuntamento raddoppiato a grande richiesta), portando sul palcoscenico «A pugni chiusi» (in teatro) con Savà Produzioni Creative e Feltrinelli Editore. Con un messaggio: «Non si può restare indifferenti».
«A pugni chiusi» analizza la recente evoluzione della società. Come va la salute collettiva, misurata con il termometro della democrazia, indispensabile come l’aria alla vita della comunità? All’ «esame obiettivo» si riscontra un po’ di affanno?
«Si respira male. Prima la crisi economica, poi il terrorismo fondamentalista, in seguito la pandemia... adesso la guerra. Abbiamo attraversato in un breve giro di anni una serie drammatica di traumi collettivi. La sensazione diffusa è quella di incertezza, di angoscia, di assenza di punti di riferimento stabili... Lo si vede anche ascoltando i pazienti: il timore è che niente sia più come prima, che l’ordine della realtà si sia destabilizzato in modo irreversibile... Pensi solo all’angoscia legata alla potenziale escalation atomica della guerra... Si tratta di una angoscia che ci obbliga ad occupare una posizione di impotenza. E questo amplifica ancora di più l’angoscia. Non posso fare nulla per liberarmi dall’angoscia che mi soffoca e questa impotenza mi rende ancora più angosciato...».
Per la copertina del libro ha scelto la foto di bambini che guardano dentro un tombino. Qual è la valenza psicoanalitica di questa immagine, che in effetti dà una sensazione di assoluta libertà nell’esplorare la vita anche nei meandri reconditi? La scelta del titolo a cosa rimanda?
«E’ un’immagine che ho scelto tra le tante che l’editore mi ha proposto. Restituisce in modo efficace la postura di fondo della psicoanalisi. Scoperchiare, non accontentarsi della superficie, aprire, vedere cosa c’è sotto. E’ la curiosità primaria dei bambini e degli animali. Il piccolo Hans ponendosi la domanda su come nascono i bambini delinea il movimento primario della psicoanalisi, del suo interesse per le cose umane. “A pugni chiusi” invece rimanda alla mia formazione politica giovanile (ho militato giovanissimo nel cosiddetto movimento del ‘77), ma soprattutto ad un gesto di indignazione e di rivolta. Questo tempo lo esige. Non si può restare indifferenti...».
Tra tutti i traumi individuali, ricaduti su «scala» collettiva, quale considera il peggiore?
«La pandemia è un trauma che ha sfiorato il delirio. Non a caso alcuni miei pazienti francamente deliranti si sono sentiti paradossalmente meglio. Il delirio non abitava più le loro vite ma il mondo intero! Lo spettacolo delle città deserte, l’esperienza del confinamento, l’angoscia dell’infezione, la crisi economica che ne è scaturita rendono la pandemia un trauma imparagonabile. Proprio perché del tutto inatteso, impensabile, inimmaginabile. E’ vero però che ultimamente diversi miei pazienti mi dicono che non riescono a pensare ad altro se non al rischio di una estensione della guerra, di una sua escalation atomica che comporterebbe l’autoannientamento del genere umano...».
Le singole persone e le società possono trasformarsi radicalmente nel corso della loro storia o inevitabilmente sono destinate a farlo sono entro i binari del loro imprinting originario?
«La psicoanalisi non è un determinismo. Ciascuno di noi porta su di sé i marchi della sua infanzia, della sua storia, della sua provenienza, ma noi abbiamo anche la responsabilità di soggettivare tutto ciò che gli Altri hanno fatto di noi. Quello che lei chiama imprinting originario nel nostro lessico si chiama trauma. Non esiste nessuno di noi che non porti su di sé delle tracce traumatiche. Queste tracce però non sono sufficienti a fare un destino. Orientano la vita, la inclinano, la rendono sensibile a certe cose e non ad altre, ma la forma della nostra vita è sempre qualcosa che implica il rimodellamento a posteriori di quelle tracce...».
Claudia Olimpia Rossi