IL DELITTO DEL DAMS
L'omicidio di Francesca Alinovi: dopo 40 anni è ancora una ferita aperta
Quarant’anni mai trascorsi. Era il pomeriggio del 12 giugno 1983, quando Francesca Alinovi venne uccisa in una mansarda in via del Riccio 7 a Bologna. Per tre giorni il telefono in casa squillò a vuoto, fino a quando i vigili del fuoco non trovarono il corpo della docente parmigiana trafitto da 47 coltellate inferte con una piccola arma da taglio, il volto coperto da un cuscino. Francesca era bellissima, di intelligenza e sensibilità superiori: l’astro nascente (già alto per gli addetti ai lavori) della critica dell’arte, non solo italiana. Un'esploratrice dell'underground e della controcultura newyorchese. Aveva solo 35 anni, quando le fu impedito di scoprire ancora. Da allora, non c’è giorno che la sorella non pensi a lei e che in qualche modo non risenta la sua voce. «I familiari non dimenticano» dice Brenna, maggiore di sette anni, simile a lei per certi versi, ma più prudente come si addice a una quasi seconda mamma. È come se il tempo (più adatto a spargere sale sulle ferite più profonde che a rimarginarle) non fosse passato. Anzi, troppe volte è tornato indietro. Ai 47 fendenti sul corpo della docente del Dams se ne sono aggiunti migliaia, in questi quattro decenni.
Gli ultimi, sono i 37 con i quali è stata ammazzata Giulia Tramontano, ventinovenne al settimo mese di gravidanza. «Voleva solo andarsene, come Francesca, che un paio di mesi prima nel proprio diario aveva scritto di aver capito con chi aveva a che fare e di sentirsi finalmente libera. È questo il momento più pericoloso, quando si ha a che fare con certi individui: si deve solo scappare». Per Brenna è come se la sorella fosse stata uccisa per l’ennesima volta. «E poi, lo so, si trovano sempre giustificazioni, attenuanti per chi ammazza: i colpevoli finiscono per fare quello che vogliono. Ci fosse almeno giustizia…». Francesco Ciancabilla, condannato in terzo grado a 15 anni per l’omicidio di Francesca Alinovi dal carcere è uscito dal 2005, scontando buona parte della pena nella sua Pescara, di giorno al lavoro e in cella solo di notte. Per una decina d'anni, prima di essere scoperto nel 1997 in un bar di Madrid da un carabiniere di Pescara, aveva vissuto dieci anni da latitante, in Brasile, Argentina e Spagna. Per Brenna invece sono stati 40 anni senza sconti di dolore né permessi premio d’oblio, con il ricordo sempre in agguato: se non è ergastolo ostativo, poco ci manca.
Brenna la prima «condanna» se la vide infliggere durante il processo a Bologna. «Ne uscii devastata, per come si provò a colpevolizzare mia sorella: perché lei aveva 35 anni e lui 24, perché lei era una professoressa e lui uno studente. Manco quell’”essere” fosse stato un liceale, quando invece era lui a servirsi e ad approfittarsi di lei». La vita della vittima venne scandagliata in tutti i suoi aspetti, la sua intimità fu data in pasto a tutti, in aula furono lette parti del suo diario (e chissà se qualcuno avrà almeno colto il fascino della scrittura, la profondità dei pensieri di chi scriveva “Sfortunata in amore, vivo tutte le mie pene nelle pene d'amore” e anche “Non voglio morire e non posso amare”). Altre coltellate, dopo la morte. Poi, il colpo finale, con l’assoluzione di Ciancabilla (che si è sempre proclamato innocente) in primo grado, per insufficienza di prove. «Quando tutti noi, vicini a Francesca, sapevamo che era stato lui, che aveva trascorso quella domenica proprio in casa con lei e già in passato violento nei suoi confronti».
Bella e intelligente Francesca, ma anche ingenua e sfortunata. I due anni di relazione con Ciancabilla (definito «psichicamente border line, bello e impossibile» dagli stessi giudici) furono tormentati fin da subito. Lei, che aveva schiere di ammiratori, che aveva scoperto il Graffitismo e la Street Art e negli Stati Uniti aveva conquistato la stima di pittori del calibro di Keith Haring, s'era invaghita di quello studente dalle ambizioni artistiche e il carattere scontroso: per lui aveva coniato il termine Enfatismo. Per lui aveva abbandonato un incarico al Guggenheim Museum. «Saputo che aveva dei problemi era rientrata a Bologna, per portarlo una settimana in montagna, come se bastasse a fargli cambiare vita. Poi, a New York non era più tornata». A nulla erano valse le suppliche di Brenna, nelle telefonate chilometriche che permettevano alle sorelle di trovarsi da sole (cosa impossibile durante i vernissage delle mostre). Lei solo una volta lo aveva visto, in una delle rare scappate a Bologna. «Lui non mi disse nemmeno salve, e il suo sguardo mi gelò il sangue nelle vene». Francesca sperava che anche lo studente si innamorasse, Brenna invece che la sorella guarisse da quell'amore malato.
C'era riuscita, ormai. Ed è questo a rendere ancora più insopportabile il dolore della sorella maggiore, oggi 82enne. «Fosse morta di malattia, avrei potuto accettarlo alla fine, ma in questo modo, quando sembrava che stesse per salvarsi. Non mi rassegno, non posso. Questa è una violenza senza fine». Alla quale se ne sono aggiunte altre. Come quella della mostra allestita da Ciancabilla (che si definisce globetrotter e si è reinventato grafico, fotografo, barman e manager di gruppi musicali) a Bologna nel 2015 con le sue opere realizzate con spray acrilico e intitolata One Hundred Women. Tra quelle cento c'era anche Francesca, ritratta in verde e nero. Una piccola confessione, in fondo: è a lei che deve una notorietà tutt'altro che invidiabile. Mentre Francesca continuerà a brillare di luce propria.