Ritratto

Alberto Tomba, il cuore nascosto dell'uomo delle nevi

Ci sono i piatti da lavare: Alberto Tomba è in ritardo di dieci minuti. Poco male, lui è l’atleta dei grandi recuperi, l’alchimista che nelle seconde manche trasformava distacchi da sconfitta in argenti luccicanti più dell’oro: dieci minuti sono niente, specie se la gara è lunga e in salita. Ci piaccia o no, è in salita che si vive e magari si vince: così è anche per chi, danzando tra porte e paletti, ha conquistato la vetta innevata dell’Olimpo attraverso discese vertiginose. Prima erano gli allenamenti, lo stress, le invidie, i paparazzi, la pressione mediatica e le incomprensioni sempre in agguato; ora - tolti da un quarto di secolo scarponi e sci da competizione - è l’impervio cammino della quotidianità, con le sue incombenze, ancora più gravose per chi ha respirato per undici anni l’effervescenza della gloria. I piatti da lavare sono il meno, sono una giusta causa, se prima li si è riempiti al meglio. «Sono emiliano in tutto, resto un amante della pasta che alle bistecche di una volta adesso preferisce carni bianche e verdure e che d’estate si dimentica il vino rosso - sorride Tomba -. Sono di buona cucina e buona forchetta, ma poi sparecchio: non ho il maggiordomo dietro…».

Dov'è finito il bianco delle nevi disciolte? Quali sono i veri colori del paesaggio Alberto Tomba? C’è qualcosa di più profondo e variegato del previsto, a volte contrastante: al punto di far sospettare che esuberanza e introversione siano le due facce di una stessa medaglia. «C’è un essere speciale, buono d’animo» rivela Arturo Maiolani, lo skiman che ha contribuito a stendere scie d'oro sulle piste del campione (ma lui sottolinea che Tomba sarebbe stato tale con chiunque al fianco). «C’è Alberto, dolce e tranquillo, che sempre più emerge, a scapito di quel Tomba coraggioso, talentuoso e spavaldo a volte fino a sfiorare l’arroganza» dice Piero Gros. «C’è un uomo sensibilissimo, altruista, schivo e poetico che si è dovuto difendere e si fa davvero conoscere da pochi» racconta lo scrittore, scultore e alpinista Mauro Corona. C’è l’affascinante paradosso di un estroverso e solitario campione di uno sport, non a caso individuale, che dava spettacolo prima e dopo le gare, ma in discoteca (le volte in cui ci andava, molto più rare di quanto si dicesse) stava in disparte, a un tavolo d’angolo.

Alla conquista del Regno d'inverno

Le guasconerie di un ragazzino (-one) bolognese diventato primattore dall’oggi al domani, in perenne trasferta, qualunque fosse il lato del confine, alla conquista del Regno d’inverno («Ero scomodo, di città, battevo i nordici, e così mi preferivano Zurbriggen e Girardelli») non sono che l’apparenza, la corazza indossata per salvare quanto si ha di più fragile e prezioso. Il primo slalom in cui impegnarsi era quello: ogni curva una finta, per evitare di trasformarsi nel bersaglio che diventa chi sta in posa sulla vetta. La fuga mancata di Marco Pantani, il dribbling non riuscito a Maradona. «Rischiavo di essere stritolato come loro» ammette lui.

E così Alberto scelse di giocare, anche con il nome. «“Tomba la Bomba” mi divertiva, ed era anche una piccola rivalsa nei confronti dei francesi che nella “mia” Albertville mi gufavano la caduta - ricorda -. Invece, mi spiace per loro... Ma ancora meglio era quell’Albertone che diventava Albert One». Certo, le vittorie fanno presto a diventare da tante a troppe: difficili perdonarle più delle sconfitte, per qualcuno. «Sono stato amato, osannato e criticato in modo più o meno corretto, è normale; ma c’è stato un 20-30 per cento che ha esagerato con gli attacchi». Effetti collaterali del vivere in un Paese fondato sulla polemica. «Fossi nato in Germania, in Austria, in Svizzera o in Norvegia, sarei stato come Jordan negli Stati Uniti...». Più protetto e meno esposto agli strali «di chi - commenta Corona - era pronto ad aggredirlo per sciocchezze, quando sono convinto che, fosse stato al suo posto, il fustigatore avrebbe fatto lo stesso».

Oggi, non gli andrebbe meglio: ad amplificare tutto e a moltiplicare i censori, ci sono i social. Dai quali lui si tiene fuori. «Sulla mia pagina Facebook - spiega Alberto - negli ultimi anni ho postato appena l'annuncio del documentario (“Vincere in salita” di Tommaso Deboni, ora su Netflix, ndr). La privacy non esiste più, con gli smartphone si fa tutto: c’è chi finge di telefonare e invece ti inquadra, in qualsiasi momento». La paparazzite è dilagante, epidemica. Di quella non ci si libera, dopo una pandemia «che ci ha fatto perdere due anni e ci ha lasciati tutti più timorosi e incattiviti. Basti vedere come si va per strada: delle belve...». Facile rimpiangere gli anni ‘80-’90, dell’Italia ancora giovane e felice, vincente con il bolognese delle nevi come in Spagna con gli Azzurri di Bearzot. «Era bello tutto, allora: che disastro il nuovo millennio, a cominciare dalle Torri Gemelle».

Castel de' Britti era ed è la roccaforte di Alberto, il luogo in cui fermare il tempo. Da qui lui è partito, qui ha continuato a vivere una volta smesso l’ultimo pettorale, senza mai sposarsi, in una casa a cento metri dai suoi e a venti dal fratello. Lì accanto atterrò due volte l’elicottero inviato dal presidente di Mediaset nell’88 e nel '92, per portarlo a Milano per la consegna del Telegatto. «Silvio Berlusconi mi dimostrò grande simpatia. Negli anni '90 mi fece salire sul proprio yacht a Poltu Quatu; un’altra, nel 2006, a Porto Rotondo, mi invitò con mia sorella a Villa Certosa. Me lo ricordo ancora che ci dice: “Ecco, tra poco erutta”, di fronte alla riproduzione del vulcano. Sapeva far ridere ed era una persona di cuore: non mi schiero da nessuna parte, ma credo che alla fine alla sua morte abbia pianto anche qualcuno che lo odiava. Come lui non ce ne saranno più».

L'emilianità, i rapporti con Parma

Fosse stato meno complicato, Tomba avrebbe reso omaggio all’ex primo ministro come fece nel 1993 con Pietro Barilla. «Alla morte di papà - ricorda Luca Barilla in “Vincere in salita” -, nonostante gli impegni che doveva avere, senza preavvisare nessuno, Alberto arrivò, entrò in casa in silenzio e dopo aver salutato, sempre in silenzio ripartì. Mi piacque moltissimo l’umiltà con cui si manifestò, la semplicità e la sincera partecipazione al nostro dolore». Tomba aveva legato il proprio nome alla Barilla nel 1992, facendo nascere qualcosa che andava ben al di là di un contratto di sponsorizzazione con memorabili spot pubblicitari. «Alberto - prosegue il vicepresidente del Gruppo - era profondamente italiano ed emiliano, proprio come la nostra azienda. Questo era alla base del nostro connubio». Un rapporto così naturale da far chiedere a Tomba perché «sia cominciato solo nel 1992».

Castel de' Britti rappresenta anche la cornice di una vita senza eccessi, da proteggere. «Dicevo poco fa a un amico che sarebbe l’ora di rimanere come siamo rimasti» Alberto scherza (o forse no). L’immancabile rito di un paio di mercoledì al mese è la cena con i ragazzi del club. «Che non si è sciolto al mio ritiro, ma è rimasto come una famiglia. Siamo una cinquantina, ordiniamo pizze o tigelle o insalatone: niente più primo, secondo e dessert. Il metabolismo è cambiato…». Ma di calorie se ne bruciano ancora, eccome. «D’estate, perdo sempre dieci chili, grazie a camminate, corse, giri in bici e nuotate. Nelle palestre e nei locali al chiuso non riesco a stare. Forse anche per questo non vivo in città, ma nel verde: sono un cugino di campagna (ride, ndr)».

D’inverno, invece, è ancora la neve. «Mi dedico allo scialpinismo, salgo a bordo pista con le pelli: due ore per due minuti di discesa… Vado alla chiusura degli impianti, al tramonto, vivo sensazioni meravigliose, incantato da scenari che prima non riuscivo ad ammirare». E forse in quella luce torna ragazzino, a quando scendeva dal Cristallo all’imbrunire, per allenarsi a leggere con gli sci la neve ormai invisibile. A portarlo era Roberto Siorpaes, che ancora oggi lui va spesso a trovare a Cortina, schivando le sfilate in corso Italia e le tappe della mondanità. «La mia vita in montagna è rifugio, casa e ristorante, alla larga da ogni movida». Semmai, il movimento è Alberto a crearlo, ovunque vada, accolto dall’affetto della gente. «Rimane un piacere: sarò sempre riconoscente a chi mi ha seguito e incoraggiato negli anni».

«Quegli scherzi prima della gara»

Lo era anche ai tempi delle competizioni. «Sempre disponibile, per foto o autografi - ricorda Maiolani, suo skiman di fiducia, quando per lui si formò un team ad hoc - tranne a pranzo e a cena: in fondo, da buon emiliano, non può non dare una grande importanza al mangiar bene e in pace». Sensibile all’affetto della gente, Tomba era anche bravo a trasformare in energia il dissenso. «Accadde ai Mondiali in Sierra Nevada - prosegue Maiolani -. Dal '95 (anno della conquista della Coppa del mondo generale, ndr), vennero rinviati al '96 per mancanza di neve. In un’intervista televisiva in Germania un paio di settimane prima delle gare, Alberto, parlando dei rischi del clima per la neve a quelle latitudini, fu tradotto male e la stampa titolò: “Tomba va a sciare in Africa”. Gli spagnoli non la presero bene: accompagnarono le sue discese con bordate di fischi. Qualcuno del team azzurro al cancelletto di partenza si indignò. ”Lasciali fare” - ribattei -, “più lo fischiano e più lui si carica”. Andò così, e lui li ricorda come i Mondiali più belli, non solo per i due ori».

Erano trascorsi dieci anni dal primo incontro tra i due. «In Valsassina - racconta Maiolani - alla partenza notai questo sedicenne cittadino, in mezzo a tutti i ragazzi delle Alpi. Loro silenziosi, concentrati, per quella gara da punti, e lui impegnato a scherzare e a prendere in giro gli altri. La tensione, l'ha sempre scaricata così». Concluso il rapporto di lavoro, tra i due sarebbe rimasta l’amicizia. «Ci sentiamo, mi chiede dei miei figli, più volte ho potuto misurare la sua bontà d’animo». Solo un dispiacere Alberto ha procurato al proprio skiman. «Troppo presto ha lasciato le gare: poteva continuare a vincere, quante emozioni avrebbe potuto donare ancora».

Il dispiacere resta, nonostante Alberto abbia ripetuto chissà quante volte di essere arrivato «ad averne la nausea». E non certo per guai fisici. La dotazione di muscoli d’acciaio che, unita a tecnica e istinto, ha fatto di Tomba un atleta unico, rimane oggi, figuriamoci 25 anni fa. «Gambe e braccia sviluppate per darmi lo slancio in partenza le ho mantenute» sorride lui. Era la testa, semmai, a non poterne più. Anche per la sensazione di dover combattere solo contro troppi, nonostante il suo nome accendesse il tifo di appassionati non solo italiani. Poi, il tempo ha fatto il proprio dovere. E per le Olimpiadi di Torino nel 2006 il pensiero che anziché da tedoforo avrebbe potuto esserci da sciatore lo ha sfiorato più di una volta. «Avevo 39 anni. Oggi a quell’età si vince ancora… Mah, almeno a Salt Lake City nel 2002 avrei potuto provare a dire la mia». È un rimpianto? «Semmai più forte ancora è quello di essere stato, a vent’anni, a disposizione di tanti da non avere più tempo per me. Mio papà mi raccomandava di non dire sempre sì…». Una breve pausa, poi un colpo di reni simile a quelli che gli hanno evitato più cadute in gara: «No, ne è valsa la pena. Rifarei tutto». Forse anche il ritiro con strip a Crans Montana, dopo l’ennesima strepitosa vittoria.

Una decisione che ha permesso ad Alberto di strappare sempre più spazio a Tomba, sottolinea Gros. «Nel mio rapporto con lui - ricorda lo sciatore che vinse, tra l’altro, la Coppa del mondo generale nel 1974 e l’oro olimpico nel 1976 nel tempio della neve di Innsbruck - ci sono tre fasi: quella delle gare, quando lo incontravo per intervistarlo, il subito dopo, quando ci siamo un po’ persi, e il periodo più recente, nel quale è nato un bel rapporto. Lui mi sorprende con messaggi del tipo “Ciao Vecio, come stai?” Finché sei un atleta, tutti ti cercano: ti accorgi solo dopo chi ti sia davvero amico. E io voglio dirgli ancora una volta: “Mi sei simpatico, ti voglio bene”. Lo sport non è tutto, ma un passaggio e bisogna continuare a crescere». Sarebbe stata una bella sfida allenarlo? «L’uomo giusto - risponde Gros - era Gustavo Thoeni, non uno come me, troppo simile a lui. Ero un po’ un lavativo, basavo tutto sull’istinto e non seguivo alla lettera quanto mi si consigliava. Io avrei cercato di impedirgli di ripetere i miei errori e invece Gustavo è stato bravo ad assecondarlo. I risultati hanno dato ragione a entrambi».

«Vinceva per sé e per tutti noi»

Risultati moltiplicati dalla forza delle emozioni, tanto che la memoria collettiva gli assegna anche le Coppe che non conquistò, pur meritandole. «Lui non ha vinto solo per sé: ha fatto vincere un po' tutti noi» commenta Corona. Il trionfo a Crans Montana, lo scrittore lo seguì in diretta da un bar nella sua Erto. «Che festa. Ci mettemmo a giocare alla morra, a cantare, a bere... Be', avevamo già cominciato, ma a quel punto cominciammo a fare sul serio. Cadevano bicchieri e sedie, e la barista, tombista pure lei, era dalla nostra. Tomba c’è stato, in quel bar, quando è venuto a trovarmi. Anch’io sono stato a casa sua, suo ospite: è un ragazzo gentile e generoso». Pronto a immedesimarsi e ad aiutare, in silenzio. «C’è Elena, una ragazza toscana - prosegue lo scrittore -. Era una promessa della discesa libera, prima di restare paralizzata in un incidente d’auto. Lui è andato più volte a trovarla a San Marcello Pistoiese e, quando è stato possibile, l’ha portata a Cortina, per le gare. Questo è Tomba, capace di scendere dalla sua gloria e stare con gli sfortunati, per ridare un sorriso a una ragazza che ha avuto una sfiga demoniaca». Capace di scendere anche nel fango, per una giusta causa. In incognito, con occhiali da sole e berrettino in testa e stivali ai piedi, con un paio di amici del fan club era a Sant'Agata, a liberare dalla melma le case dopo l'esondazione del Santerno. Ancora una volta in silenzio è arrivato e in silenzio è ripartito.

Vincere, condividere, fare squadra con chi viene messo al tappeto dalla vita. Le vittorie, per quanto numerose, sono solo una parte della vita, anche per il più grande campione. «Bisogna parlare di sconfitte, del tempo che passa, della paura delle malattie, di perdere i genitori, delle ansie che ti vengono quando spegni la luce - aggiunge Corona - della fragilità di un uomo. L’aveva anche Tyson, che pure stendeva al terzo pugno. Alberto ha dovuto recitare la parte dello spaccone, per affrontare le platee di mezzo mondo: non c’è niente di male, ma prima o poi un passo falso rischi di farlo, e c’è chi non aspetta altro». Quando poi, nel privato, la realtà è ben diversa. Corona ha un desiderio per il prossimo inverno. «Mi piacerebbe fare una scialpinistica con lui. Ho 73 anni, ne dimostro 800, ma in salita lui non mi batte. In discesa, invece (ride, ndr), mi sa che non ci siano storie. È un mio sogno, ed è fattibile, perché a differenza di molti altri, Tomba non mantiene le distanze: sa riconoscere la vera amicizia. È come un cane da tartufi, ma bravo a fiutare le persone». E che fiuta pure il tempo. C'è da sentirlo ancora, ma pare che il cielo si stia annuvolando su Castel de' Britti. «Devo tagliare l’erba, prima che piova» risponde Alberto, posticipando l’appuntamento alla «seconda manche», per l'immancabile recupero. Lo curi bene, quel prato, anche se non ci cade più la neve di un tempo: fu lì che tutto ebbe inizio.

Roberto Longoni