Tutta Parma
Quando c'erano i ciapacàn e ciapagàt
Lorenzo Sartorio
Se dovesse aggiornare la Divina Commedia, Michela Vittoria Brambilla, animalista a tutto tondo nonché conduttrice di una seguita trasmissione selle reti televisive Mediaset - «Dalla parte degli animali» - li collocherebbe nel peggiore dei gironi infernali : sia i «ciapacàn» che i «ciapagat». L’accalappiacani ( in «pramzàn ciapacàn»), mestiere ingrato, brutto, antipatico alla gente, specie ai bambini, è sparito per fare posto ad una moderna e più civile cultura animalista che ha maggior rispetto per gli animali anche se, questa società, il rispetto nei confronti degli esseri umani pare esserlo dimenticato. Ma ritorniamo al «ciapacàn» anni cinquanta-settanta. Il cronista ne ha un vago ricordo in quanto, l’immagine di questo «sceriffo» dei cani randagi, l’ha relegata nel cassetto degli amarcord infantili.
Nel quartiere Cittadella il «ciapacàn» arrivava all’improvviso, specie in estate, al mattino o nel primo pomeriggio ispezionando le strade, i viali ed i prati che circondavano la fortezza farnesiana. Un quartiere, allora, ancora campagna in quanto il boom edilizio, ormai alle porte, non era ancora arrivato.
Di cani, come pure di gatti, in zona, ce n’erano parecchi. Alcuni avevano un padrone, altri no. L’accalappiacani andava proprio alla caccia di questi ultimi. Il randagismo, allora, era abbastanza frequente e, specie di notte, i cani senza padrone scorrazzavano qua e là alla ricerca di cibo rovistando dappertutto e, a volte, ingaggiando tra loro sonore e cruente battaglie con latrati, abbai e altri sinistri rumori. Il «ciapacàn», a bordo del suo barroccio a tre ruote, giungeva silenziosamente ed, adocchiato un cane sospetto, cercava di avvicinarsi nascondendo dietro la schiena un lungo bastone, sulla cui cima, c’era un cappio fatto con una catena di ferro.
Con un gesto fulmineo, l’accalappiacani, catturava il randagio che tentava invano di divincolarsi. Dopo non poche contorsioni la povera bestia veniva caricata sul carretto ligneo ai cui lati erano state montate alcune piccole feritoie per dare aria all’angusta prigione. Il cane veniva poi portato nel canile di via Toscana in attesa che si facesse vivo il legittimo proprietario. In caso contrario, la sorte dell’animale era segnata. Specie dai bambini, il «ciapacàn», non era visto bene in quanto «reo» di catturare quel compagno di giochi che sbucava dal nulla e che, per un tozzo di pane secco, si univa alla compagnia dei ragazzi con le mamme e le nonne terrorizzate dalla paura che il cane morsicasse i pargoletti. A quei tempi esisteva un altro approccio nei confronti degli animali, specie dei cani e dei gatti. Erano veramente pochi i proprietari di cani e gatti che trattavano i loro animali come si fa giustamente ora.
Al cane veniva servita, una volta al giorno, una zuppa molto spartana e, difficilmente, gli venivano somministrati farmaci in caso di malattie o ferite. Erano la pioggia o la neve che provvedevano a lavarlo, quando andava bene alloggiava in una sgangherata cuccia di legno mentre, in campagna, dormiva sotto il portico, nel fienile o davanti a casa prevalentemente legato con una catena di ferro.
Conosceva bene la natura che lo circondava sia nel bene che nel male. Infatti, una volta slegato, poteva scorrazzare per prati e fossati, purificarsi con le erbe che trovava, respirare aria buona ma, soprattutto, intrisa di quella libertà che forse, adesso, le nostre bestie non hanno. Però tutti i parassiti del mondo, tra quel pelo, ci facevano il nido e nessuno provvedeva, come si usa fare oggi, a liberare cani e gatti dagli insetti e dai parassiti con appositi rimedi. I cani d’un tempo conoscevano le intemperie per averle sul groppone tutto l’anno, come pure erano a prova di freddi polari e caldi asfissianti.
Però, se avevano un proprietario, erano sempre sul pezzo facendo la guardia, in città, al giardino o alla corte mentre, in campagna, al pollaio ed al fienile.
E se qualcosa andava storto o se il padrone eccedeva qualche volta in osteria alzando il gomito, alla povera bestia, planavano sulla schiena sonore bastonate frutto di un comportamento incivile. Stessa sorte spettava ai gatti i quali, molto più anarchici dei cani, di padroni, non ne avevano proprio e, se li avevano, se ne infischiavano in quanto il gatto ama la libertà.
Anche per i mici di ieri, i sofisticati cibi di oggi non erano nemmeno nella testa dei più fantasiosi. Il gatto si cibava degli scarti della cucina, di lische di pesce che emanavano un puzzo nauseabondo, di ratti e, in estate, di lucertole . Infatti il gatto, in estate, diventava magrissimo perché «al magnäva j arzintéli». Però, a diversità dei gatti di oggi, specie di quelli da appartamento dal pelo morbido come una pelliccia, i gatti di ieri, erano molto più svelti e «fòrsi pù scantè».
Quando adocchiavano un topo, per il ratto, non c’era scampo. Infatti il soriano era un prezioso alleato della «rezdora» che, in campagna, aveva escogitato, per agevolargli il servizio, la «gatära», ossia un piccolo varco ricavato nelle porte del solaio o della cantina dal quale il gatto poteva entrare ed uscire per svolgere la sua vigilanza anti rapina da parte dei «sòrrogh».
Una delle tante insidie della casa contadina di ieri, oltre le fastidiosissime mosche le quali in estate si andavano a stampare in quella striscia di carta appiccicaticcia che, appesa al soffitto, penzolava nel vuoto, erano appunto i topi. Se il cane senza padrone poteva avere come insidia il «ciapacàn», il gatto, il pericolo maggiore al quale poteva andare incontro, era rappresentato dalle scorribande sui tetti, nei campi o anche nei vecchi borghi cittadini di coloro che andavano alla caccia dei felini, i tristemente famosi «ciapagat». Cosa che in passato successe anche dalle nostre parti quando la fame faceva sul serio e, specie in città, non c’era nulla da mettere sotto i denti. Secondo le tradizioni popolari erano i calzolai («cibàch») i più spietati cacciatori e divoratori di «lèvri da copp» («lepri da tegole»), ossia, gatti del quartiere.
Questa nomea di anarchici e rivoluzionari «ciapagat», i calzolai parmigiani se la portarono appresso per molto tempo, tant’è che a loro fu affibbiata anche una famosa canzone popolare: «La congiura di calsolär magnagat» che narra le imprese di una quindicina di persecutori di gatti: «giuriam tutti per la fede/ del cognac e dla barbera/ ad magnär tutti bei gatt/ sorianèn bianc e moret/ e i bei smilzèt/ sott’al zachètt!». E, fra questi «aguzzini» che catturavano le «lepri da tegole» durante la notte, alcuni famosi ciabattini quali: «Bacàn», «Ciambruschi», «Gramigna», «Bali äd can», «Cucù» e «Strafugnón». Essi, infatti, con il favore delle tenebre, si infilavano su per le antiche e anguste scale delle casupole dell’oltretorrente sino a giungere nei «granär».
Una volta presa posizione dietro gli abbaini, attendevano la preda che transitasse sui tetti, magari attirata da un’esca: un pezzo di grasso o una lisca di pesce. Dopo di che, due mani robuste sbucavano dall’angusto abbaino afferrando la bestiola la quale non aveva neppure il tempo di miagolare. Giustiziato sul posto e scaraventato in un sacco di juta, il gatto veniva poi pelato e seppellito sotto la neve per alcuni giorni affinché le sue carni diventassero tenere per essere cucinate a dovere dopo una prolungata concia in vino robusto e verdure profumate, in compagnia di una bella polenta. Ma non era finita qui. Con il pelo del gatto ricavavano una sorta di manopole da installare sul manubrio della bicicletta per non patire freddo alle mani nelle rigide giornate invernali.