C'era una volta

Perpetue, regine della cucina. E del pettegolezzo

Lorenzo Sartorio

Agli inizi del Novecento, l' osteria «La Picaja», ubicata a fianco della Chiesa di San Giuseppe, nell'omonimo borgo, fu teatro di una «congiura» che nulla ebbe a che fare con la politica ma, soprattutto, non sfociò nel sangue come altre ordite in varie osterie cittadine e del contado. Questa volta la «congiura» fu ordita ai danni del prete. Alcuni buontemponi, che frequentavano l’osteria, una domenica mattina, si avventurarono nella canonica incustodita poichè il parroco stava celebrando la messa e la perpetua assisteva al rito. Sulla stufa borbottava una grossa pentola che conteneva un bel «garatón äd manz».

Gli intrusi tolsero dalla «brónza» il pezzo di carne deponendo, al suo posto, un grosso mattone. A mezzogiorno , al momento di scoperchiare la pentola, anche se il misfatto accadde in una canonica, possiamo immaginare le «laiche» imprecazioni delle ignare vittime della burla, ma, specialmente, della «perpetua». E, a proposito di….. perpetua, ci sarà stata anche una santa che si chiamava così, ma la notorietà e la diffusione di questo nome non sono dovuti ai miracoli o alla storia di un’eventuale santa, ma alla domestica del tremebondo e fuscellante Don Abbondio.

Stiamo parlando della perpetua, la fedele, servizievole ma anche tanto impicciona ed altrettanto pettegola «colf» del parroco di manzoniana memoria passato alla storia per il suo appetito, ma non certo per il suo coraggio. Ma chi erano le domestiche dei preti d’una volta ? Cerchiamo di tracciarne un identikit sulla scorta di testimonianze di anziani di città e del contado che, le perpetue, le hanno conosciute personalmente.

La perpetua era una donna che, in gioventù, non aveva ricevuto particolari attenzioni da parte dei giovanotti del paese perchè decisamente non avvenente, oppure era un’anziana vedova o la matura nipote zitella del prete. Fatto sta che la perpetua era la vera ed unica «rezdora» della parrocchia nel senso austero e severo di reggitrice. Ella sapeva tutto e dirigeva ogni cosa: dal bucato, ai rammendi della tonaca del prevosto, dal pollaio ai fiori davanti alle statue dei santi, dalla cucina alla supervisione della cantina, dalla pulitura degli arredi sacri alla cura dell’orto, dal rosario vespertino, alle informazioni sui futuri sposi. Figura popolarissima nel borgo o nel paese, la perpetua» era famosa anche come provetta cuoca in quanto, ai preti, piaceva mangiar bene tutti i santi giorni ma, soprattutto, in occasione delle feste comandate e di talune grandi solennità quali Natale, Pasqua e la sagra.

In chiesa era la prima che intonava il rosario nel mese di maggio, che addobbava con le altre donne la statua della Madonna con le rose o quella di Sant'Antonio con i gigli. Ma era anche presa di mira da quei monelli che, frequentando la parrocchia, ne combinavano di tutti i colori, magari d’estate andando a rubare la frutta sulle piante e, d’inverno, tirando palle di neve sulla finestrella del pollaio.

Ed allora la perpetua, indossata la mantellina, usciva fuori ringhiando nei confronti di quei ragazzacci con la minaccia di riferire il tutto ai rispettivi genitori . Era lei che distribuiva le candele benedette nel giorno della Candelora, che dispensava l’ulivo alla Domenica delle Palme, che aiutava il campanaro a fare il presepe in chiesa, che lustrava fino a farli diventare luccicanti candelieri e turiboli in occasione di qualche festa o della visita del Vescovo.

Come tutte le donne, la «perpetua», per sua vocazione, era abbastanza ciarliera e un po’ pettegola e, se qualcuno voleva sapere qualcosa di una persona, la solerte perpetua poteva andare indietro di almeno tre generazioni rimarcandone virtù e umane debolezze.

Reggitrice abile e previdente non si lasciava mai cogliere di sorpresa e nella sua dispensa si poteva trovare sempre di tutto anche perché il prevosto riceveva continue visite e, tra una chiacchiera e l’altra, un bicchiere di buon vino, una fetta di torta fatta in casa o quel liquorino preparato con le erbe dell’orto non si rifiutavano mai. Nelle gelide sere d’inverno quando il prevosto rientrava infreddolito dalla chiesa dopo la messa vespertina, era lei che gli preparava il vin brulè o un brodino bollente, mentre, in estate, quando il caldo faceva sul serio, era sempre lei che, con un abile gioco di correnti d’aria, manteneva fresca la canonica chiudendo gli scuri e tenendo sempre la bottiglia del mezzo vino in ammollo nel lavandino onde abbeverare l’accaldato prevosto che arrivava in canonica in bici dopo avere attraversato quelle stradicciole incendiate dal sole. Sempre protagonista in occasione di matrimoni, battesimi e anche funerali, la perpetua, non mancava mai di testimoniare la propria professionalità formulando i migliori auguri alla nuova coppia, felicitandosi con i genitori del neonato, esprimendo le proprie condoglianze ai familiari del defunto. Ma i suoi momenti di gloria li viveva senza dubbio in occasione del Natale, Pasqua e della Sagra, oppure quando il Vescovo faceva la sua visita pastorale alla parrocchia.

La cucina della canonica, in quei frangenti, era una sorta di officina dove le ore di lavoro non si contavano, proprio con l’intento di far figurare bene il prevosto e la parrocchia che non doveva essere certamente seconda a tante altre.

Una figura, quella della perpetua, che fa ormai parte del capitolo romantico della storia del sacerdozio in tempi in cui, quando si bussava alla porta della canonica, veniva a rispondere una donna solitamente vestita con abiti scuri la quale, sommessamente, faceva entrare in casa, faceva accomodare in salotto e, nell’attesa che arrivasse il prevosto, offriva biscotti o torta fatti in casa ed un bicchierino di rosolio per poi andarsene altrettanto silenziosamente in cucina quando arrivava il sacerdote per non mettere in imbarazzo i presenti. Tanto, sapeva benissimo l’argomento che si sarebbe trattato e come sarebbe andata a finire. Altrimenti, che perpetua sarebbe stata?

Lorenzo Sartorio