EDITORIALE
Vandali e iconoclasti: la bellezza fa paura
Gli spazi pubblici, le nostre piazze per esempio, ma anche gli edifici, i monumenti, le opere d’arte, gli arredi urbani e gli stessi cassonetti della spazzatura, sono sempre stati oggetto di un conflitto che ci racconta che le nostre non sono società pacificate e che il conflitto sociale, se non è manifesto come nelle rivolte, è almeno latente, cova sotto la cenere.
Si fanno le barricate quando si resiste o si sogna la rivoluzione - ne sappiamo qualcosa anche a Parma -, si distruggono le statue perché è caduto un regime e il nuovo ordine ha nuove immagini e nuove priorità o perché la qualità eroica di chi è riprodotto è messa in discussione da una nuova sensibilità, come sta accadendo nel mondo anglosassone. Poi ci sono i gesti di rabbia impotente dei «casseur» di periferia che sfregiano il centro cittadino dal cui lusso si sentono attratti e allo stesso tempo respinti. A volte è un gesto di sovversione individuale solo sognato e sublimato dalla creazione artistica e poetica, come quello dell’anarchico che fa esplodere i monumenti dei generali in un bel film del regista georgiano Otar Ioselani che omaggia i «favoriti dalla luna», cioè i ladri, secondo il dettato poetico shakespeariano. Salvandoli, peraltro, dall’oltraggio, meno eclatante e più terragno, causato dalle deiezioni dei piccioni.
Per non parlare dell’iconoclastismo proprio di alcune culture religiose per il quale ogni rappresentazione dell’umano e del divino è eresia e come tale va distrutto. Qualcuno ricorderò, per esempio, l’accanirsi dei talebani contro i Buddha giganti di Bamiyan. Un accanimento a suon di tritolo che serviva a negare la stessa identità afghana - l’Afghanistan è da sempre una terra di passaggio tra oriente e occidente e l’arte ha sempre rispecchiato questo aspetto - e a restringerla nella camicia di forza di un Islam tanto brutale quando semplificato, rispetto sua ricchezza e all’immensa varietà delle sue manifestazioni.
Questo per dire che il gesto di chi ha dato fuoco alla «Venere degli stracci» di Michelangelo Pistoletto, uno dei venerati maestri (ha 90 anni) dell’arte concettuale italiana, non è nulla di nuovo, anzi. E però ci interroga ugualmente. È quasi certo, infatti, che si tratti di un atto doloso, anche se non pare, nonostante quando detto dal sindaco di Napoli Gaetano Manfredi, si tratti dell’esito distruttivo di una «challenge», una sfida tra giovanissimi, nata nello spazio virtuale dei social network. Si pensa piuttosto all’opera solitaria di un clochard. L’idea, comunque, resta quella di lasciare un segno della propria presenza facendo un gesto estremo, distruggendo la bellezza di un’opera d’arte fragile per i materiali da cui è composta - materiale plastico e stracci - e per la collocazione in un contesto urbano che la mette in balia da qualunque malintenzionato. Ma che, allo stesso tempo, invita tutti quanti alla cura di tanta bellezza.
Poco importa che le opere di Pistoletto, per quando fragili, anzi fragilissime, abbiano superato il tabù dell’unicità e che siano riproducibili a piacere senza grossi sforzi. La «Venere degli stracci» sarà ricostruita perché quella è la sua natura, come è nella sua natura essere nomade e vivere in differenti contesti urbani. Ricordo, per esempio, un’altra installazione di Pistoletto che abbiamo ospitato in piazza della Pace a Parma nel 2016, in occasione di un festival della creatività contemporanea «Parma 360». Il «Terzo paradiso» era composto di tre anelli di pietre che si intersecavano sul prato della Pilotta e che, impermanente come un mandala tibetano, è stato smontato alla fine della manifestazione per poi traslocare in altre città e in altri continenti.
Questo però non vuol dire che l’incendio vandalico di Napoli sia meno grave ma piuttosto che i piromani - o il piromane - sono troppo rozzi per capire l’inanità del loro gesto. Non è bruciando i libri o le opere d’arte che si blocca il flusso della creatività umana. Dà da pensare, piuttosto, il fatto che dietro questa furia distruttiva non ci sia un’ideologia forte come quella degli iconoclasti, ma solo il nichilismo o la rabbia impotente di qualcuno che si sente messo ai margini dalla vita.
La domanda, vera, insomma è questa: perché la bellezza, sublimata dal gesto artistico, fa paura? Perché per qualcuno esiste l’impulso irresistibile a deturpare e bruciare qualunque cosa bella solo per il fatto che è bella? Per rispondere non basta la razionalità, ma bisogna ricorrere alla poesia o al mito. Come quello del profumo sublime che la pantera, secondo il mito classico rielaborato dai bestiari medioevali, emana dalla bocca e che ammalia le sue prede. Quello stesso profumo che fa impazzire i cacciatori che ne sono inebriati, ma che non riescono a localizzare l’animale mitologico per ucciderlo perché è già altrove. La bellezza artistica, come il profumo della pantera, al tempo stesso seduce e spaventa e quindi accade sempre che qualcuno cerchi di distruggere l’oggetto di tanta fascinazione. Ma al tempo stesso, come il profumo della pantera, la bellezza è già altrove.