50 anni fa la morte
Don Cavalli, il prete-partigiano amato dai giovani
Esistono, si possono sfogliare, le foto al fianco di Giorgio La Pira e Enrico Mattei. Quelle delle cerimonie importanti: dalla fondazione dell'Associazione Partigiani Cristiani all'inaugurazione della sua creatura, l'Istituto storico della Resistenza di Parma. Esistono le foto di Flossemburg, quando nel suo personale viaggio della memoria andò in visita alla tomba dell'amico Renzo Ildebrando Bocchi. Sono ben conservate le foto di famiglia, di quello zio moderno e ribelle con l'immancabile cappotto, la sigaretta tra le dita, che viziava i pronipoti-bambini e a loro - solo loro - permetteva di entrare in quello studio magico dove si respirava il profumo delle sue passioni, dai libri al cinema. C'è qualche foto impostata in cui il sacerdote è una figura piccola tra uno stuolo di alunni e alunne.
Se invece c'è qualcosa in bianco e nero di cui si sente fortissimamente la mancanza, nel ripercorrere la storia umana di don Giuseppe Cavalli, figura straordinaria di prete-partigiano e intellettuale di cui oggi ricorre il cinquantesimo anniversario della scomparsa, sono le immagini del suo stare profondamente in mezzo ai giovani. «Questo prete che nelle sere d’estate passeggiava avanti e indietro per Noceto, affiancato da due ali di ragazzi che, sotto gli occhi compiaciuti dei genitori, lo stavano ad ascoltare e venivano essi stessi coinvolti e resi partecipi delle problematiche più svariate: dai temi scottanti che la dittatura andava proponendo ai contenuti della formazione spirituale, dal sano divertimento all’accostamento ai valori della cultura», scriveva il nipote Guerrino «Ninni» Cavalli, storico capocronista della Gazzetta di Parma sotto la direzione di Baldassarre Molossi.
Nato l'8 ottobre 1898 a Berceto (dove questa mattina alle 11 in Duomo sarà ricordato in una messa), don Giuseppe Cavalli studiò prima al Seminario di Berceto e poi, durante la guerra, in quello di Cogneto di Modena. Fu durante una gita scolastica a piedi al seminario mariano di Campogalliano che riconobbe la strada voluta per lui dal Signore: «Entrammo nella chiesetta - raccontò al nipote - e, come mi trovai di fronte all’immagine della Madonna, avvertii dentro di me la chiamata, la vocazione: sarei diventato prete». Ordinato prima diacono e poi presbitero nel 1922 da monsignor Conforti, venne assegnato alla parrocchia di Noceto, dove era parroco don Orsmida Pellegri. E lì, in un momento in cui il fascismo puntava a detenere il monopolio dell’educazione, conquistò i giovani grazie al suo modo di coinvolgerli, di appassionarli alla vita e di trasmettere i valori della cultura, della libertà, della fede, della dignità. Era con loro in chiesa, in oratorio, nelle serate di lettura tra classici e moderni, nelle partite a calcio con la lunga veste nera raccolta sui fianchi, fondando il primo gruppo di scout della provincia.
Quello che - disciolte dal fascismo le organizzazioni giovanili cattoliche - , «nella chiesa gremita di gente commossa, sfilò in silenzio per deporre all’altare le sue insegne e le sue bandiere, in un estremo atto di protesta contro il soffocamento delle libertà religiose e civili», ricordò ancora il nipote. Un altro scatto mancato ma simbolicissimo.
Era un antifascista della prima ora, don Cavalli. La violenza cieca del regime l'aveva vista all'opera subito, nel maggio 1921 a Berceto, assistendo all'uccisione di Palmira Magri da parte di una squadraccia che sparò all'impazzata mentre in camion attraversa il paese. Nel 1936 fu assegnato come cappellano alla Steccata, che sarebbe diventata la «sua» chiesa, e in quegli anni entrò in diverse classi del Romagnosi, del Convitto Maria Luigia e del Melloni, insegnante di religione sui generis: moderno, coltivatore di spirito critico con le sue lezioni sulla libertà, sull'uguaglianza, sullo Stato a servizio dell’uomo, di qualsiasi uomo. Non pochi i ragazzi che ispirò e che come lui entrarono nella Resistenza.
La sera del 23 settembre 1943 era a Bardi per una riunione di cospiratori: con lui Renzo Ildebrando Bocchi e Giacomo Ferrari, «Arta». Entrò nella Sap Corazza col nome di battaglia «Stelvio», si occupò dell’organizzazione clandestina delle bande, della diffusione degli ideali e da oppositore del regime gli si spalancarono il 26 aprile 1944 le porte del carcere di San Francesco. Venne a contatto con altri partigiani e perseguitati tra cui Giordano Cavestro, figlio di un caro amico, e gli ammiragli Inigo Campioni e Luigi Mascherpa, che confessò prima di essere mandato agli arresti domiciliari a Noceto. Fu lì che accolse con un pianto sommesso la notizia della loro fucilazione dopo un iniquo processo: fa a loro che dedicò l'intenso, commovente volume «Il calvario dei due ammiragli».
A fine guerra fu in prima linea perché quei valori fossero patrimonio del nuovo Stato, sponsorizzò l'impegno dei cattolici in politica, fu fautore di dibattiti e al fianco dei «grandi» - tra cui De Gasperi - anche sulla scena nazionale. «Il Pretino come la pensa?», chiedeva sempre il senatore Giuseppe Micheli ai suoi collaboratori. E nel segno della coerenza, votò per la dolorosa scissione dall'Anpi fondando l'Associazione Partigiani Cattolici, di cui divenne cappellano nazionale.
«Ne ricordo la figura ieratica, elegante, e il suo essere la persona più buona che abbia mai conosciuto. Fu un uomo disarmante, che col suo atteggiamento finiva per condurre i suoi interlocutori al dialogo e all’arricchimento reciproco - racconta il pronipote Alessandro -. La sua attualità? Come per il fascismo, la lungimiranza di riuscire a vedere le cose che accadevano “in diretta”, senza attendere il precipitare degli eventi: una dote rara anche oggi».
Chiara Cacciani