SENTENZA

Maxi frode grazie ai prestanome reclutati sotto i ponti: due condanne

Produrre. Eccola la parola d'ordine. Non beni o servizi, ma tonnellate di false fatture, in modo che varie imprese sparse un po' in tutta Italia potessero dribblare il fisco. Così erano state create decine di società, con a capo le persone «giuste». Prestanome arruolati anche davanti ai Sert o sotto i ponti, persone fragili che si accontentavano di mancette e soprattutto si ponevano poche domande.

Un sistema di cui avrebbero fatto parte Alessandro Vitale, reggiano, ma residente in città, Vincenzo Acampa, napoletano, e Fabrizio Campanari, reggiano con casa a Parma, arrestati dalla Finanza lo scorso aprile, ieri, dopo la richiesta di giudizio immediato da parte del pm Paola Dal Monte, sono finiti davanti al giudice Beatrice Purita: Vitale, già coinvolto nel caso Aqualena, è stato condannato a 4 anni e 8 mesi e Acampa, a cui sono state riconosciute le attenuanti generiche, a 3 anni e 2 mesi.

Entrambi, agli arresti domiciliari, avevano scelto il rito abbreviato, che ha così fatto scattare lo sconto di un terzo. Via libera anche alla confisca di 1 milione mezzo di euro a Vitale e di oltre 4 milioni complessivi a tre società coinvolte.

Nessun accordo, invece, tra pm e difesa sul patteggiamento di Campanari, anche lui ai domiciliari, che così affronterà il processo a dibattimento. Reati estinti, infine, per Matteo Allegri, parmigiano, morto nelle scorse settimane.

Un primo traguardo processuale, in tempi brevissimi, grazie al giudizio immediato, ma l'indagine coinvolge altre 40 persone con decine di capi d'imputazione. Un sistema ben oliato, con chili di banconote a disposizione di chi l'aveva messo in piedi, se si pensa che nell'ufficio di uno degli arrestati furono trovati 85mila euro in contanti nascosti nel controsoffitto. E tra i reati contestati, oltre a quelli fiscali, anche la circonvenzione di incapace (a Campanari).

Era stata messa in piedi una vera e propria centrale di vendita di fatture false, ormai da tempo «terreno di specializzazione» della criminalità economica. Secondo gli inquirenti, le imprese. dopo aver ricevuto le fatture taroccate, trasferivano i soldi alle cartiere per simulare il pagamento di lavori in realtà mai avvenuti. E, poi, via con i passaggi di denaro da una società all'altra, tutte scatole vuote, per rendere complicata la ricostruzione dei flussi finanziari. Ma è chiaro che i soldi dovevano tornare alle imprese-clienti. E così sarebbero stati ingaggiati dei «prelevatori», personaggi che prendevano i soldi in contanti da restituire poi alle ditte. Ovviamente c'era un guadagno per i membri dell'associazione: il 6% dell'importo indicato nelle false fatture.

Giri di denaro da capogiro, se si pensa che nel 2019 e nel 2020 due «prelevatori» nullatenenti avrebbero ricevuto dalle cartiere oltre 6 milioni, poi restituiti ai registi dell'organizzazione.

Georgia Azzali