Demenze
«Le famiglie reggono se si fanno sostenere»
Sono molto seguiti anche a Parma i video che su Facebook vedono affiancati il blogger, autore, scrittore (e anche inventore degli «Umarell») bolognese Danilo Masotti e la mamma Concetta. E sono alcuni dei commenti a rendere esplicito ciò che probabilmente diversi dei «like» - centinaia – nascondono. «Mi stai aiutando a affrontare in modo diverso la malattia di mia mamma: funziona, lei è più tranquilla e adesso ci facciamo anche delle risate insieme». «Sei bravissimo a rendere “divertente” un problema così triste: grazie». «Incanali verso dinamiche positive anche quando non è facile farlo». Concetta vive in una Rsa e soffre di demenza. E quel figlio che la porta a fare un giro o che le fa incontrare una ex vicina di casa, che canta insieme a lei una canzone di Vasco Rossi o «Romagna mia» e che a volte viene scambiato per il defunto marito, ha evidentemente trovato una chiave. Per lei, per se stesso e per chi vive una situazione simile: stimolare i ricordi, praticare l’ironia, accettare che la malattia progressivamente tolga ma anche abbia ancora dell’amore e delle risate da dare. Antidoto alla vergogna, alla paura, alla fatica immane, alla pazienza che si perde: che pure queste finiscono per confessarsi nei commenti. Ricevendo però il sollievo della condivisione.
«Tecnicamente noi diciamo che in queste persone dobbiamo riuscire a mantenere il più possibile le capacità residue. Quello che si perde con la malattia è la possibile acquisizione di nuovi concetti. Ma rimangono gli automatismi, in cui non è necessaria la consapevolezza di ciò che si fa, e rimangono soprattutto le emozioni, ciò che più è innato in noi: è ciò che dimostra l’esperienza di Masotti con la madre, frutto di istinto e di ciò che si può imparare, trovando anche aspetti positivi mentre si affronta una malattia devastante», commenta Livia Ludovico, responsabile aziendale del Programma demenze dell'Azienda Usl di Parma. Solo nel 2022, la rete dei Centri per i disturbi cognitivi e demenze nei quattro Distretti della provincia - un bacino di famiglie seguite che va tra le 8 e le 9 mila all'anno - ha effettuato 2260 prime visite e 6mila visite di controllo. Le nuove diagnosi sono state 1085, di cui 144 sotto i 65 anni. Ma ci sono stati anche 2mila colloqui psicologici coi familiari. Si tratta infatti di malattie progressive, croniche e dal percorso personalizzato - la più frequente è l'Alzheimer - che sul secondo dei due fronti, quello di chi si prende cura, sono difficili da accettare, gestire e rischiano di scatenare cortocircuiti di frustrazione, impazienza e sensi di colpa. Oltre al dolore.
C’è la possibilità di evitarlo? «La risposta apparentemente è semplice: al momento della diagnosi, farsi subito aiutare dai servizi, senza aspettare – dice Ludovico -. So che possono sembrare pochi e incompleti, ma non lo sono, ed è un peccato che siano sottoutilizzati. Prima una famiglia è sostenuta, prima ha la possibilità di metabolizzare e stare meglio». Cita i figli e i coniugi per cui «è troppo presto», che «sì, mi hanno detto che ha l’Alzheimer ma si lava e si veste ancora da solo...», che «al centro diurno non ci andrebbe mai». «In realtà è la famiglia che fa fatica ad accettare e che si aggrappa ai momenti di lucidità». Capita che la «deflagrazione» arrivi durante la solita vacanza nella solita casa in montagna e si debba correre a fare le valigie. Capita che l'automatismo della guida dell'auto vada in tilt di fronte a un cantiere e a una deviazione: e all'improvviso la strada di casa è perduta. «Il punto è che, dai primi segnali, la malattia nel frattempo avanza, il carico assistenziale aumenta e si continua a rapportarsi con la persona come fosse quella di prima. E a volte finisce che scattino la rabbia, l’aggressività, le reazioni esagerate che non le appartenevano. Quei “ma tu chi sei? No, non è vero, io non ho figli" che tanto feriscono».
Lasciarsi aiutare significa ad esempio «che noi ci occupiamo del bagno a domicilio o delle pratiche puramente assistenziali che alla lunga possono essere faticose, e i familiari riqualificano la loro assistenza dal punto di vista emotivo-relazionale: accompagnano fuori a prendere un caffè o a fare un giro, chiacchierano del passato, che è ciò che alle persone interessa sempre di più e scatena emozioni, o – se non sono in grado di parlare - stimolano la loro emotività attraverso gesti, abbracci, foto da mostrare. Insomma, si prendono tempo per aiutarle a mantenere quelle famose capacità residue».
È quello che accade anche nei centri diurni, «dove le indicazioni che diamo sono di sapere chi era e quali erano le abitudini della persona che arriva: c’è chi sarà stimolata dal colorare un mandala e chi invece, dopo una vita in campagna, si riattiverà con l’orto-terapia, anche se non sa più nulla di stagionalità e dei tempi giusti per la semina». Ma il gesto è rimasto.
Succede per le ospiti del centro diurno di Busseto, ad esempio: tante di loro non smettono nemmeno lì di «lavorare» allo storico bottonificio del paese, e nei bottoni ritrovano manualità e gioia. O a chi per anni ha diretto un ufficio, un filiale di banca o una stazione dei carabinieri, e continua a dare indicazioni operative a chi trova nei paraggi. E poi c'è ciò che di straordinario accade quando si propone la doll-therapy: «Magari sono anziane non più in grado di vestirsi e di prendersi cura di se stesse ma quel bambolotto lo vestono alla perfezione e i gesti di accudimento sono quelli da manuale: uno in fila all’altro, correttamente e teneramente».
Chiara Cacciani