Il ritiro di super Gigi

Quel filo rosso che lega Zoff e Buffon

Fabio Monti

Gigi Buffon ha chiuso con il calcio quarant’anni e due mesi dopo Dino Zoff. Erano le 11.57 di giovedì 2 giugno 1983, festa della Repubblica, quattro giorni dopo l’ultima partita, quella con la nazionale a Göteborg, 2-0 per la Svezia, ma grandi parate, a conferma di una classe capace di resistere al tempo. Buffon ha scelto un messaggio e un video di grande impatto emotivo; Zoff, non potendo anticipare i miracoli della scienza e della tecnica, si era accontentato di spendere poche parole in una saletta dello stadio Comunale di Torino, ma l’incipit è stato identico.

Due parole: «Finisce qui». Uniti dal numero 28, uno (28 gennaio 1978) smette a 45 anni e sei mesi; l’altro (28 febbraio 1942) si era fermato a 41 e tre mesi e sembrava già un mezzo miracolo resistere per così tanti anni.

Nonostante certe classifiche siano prive di fondamento, perché non si dovrebbero mai paragonare gli interpreti di epoche diverse, c’è sempre la tentazione di chiedersi chi sia stato il più bravo fra i due. In questo caso, si potrebbe scomodare la famosa risposta data da Gian Paolo Ormezzano, giornalista e scrittore di multiforme ingegno (e direttore di Tuttosport), a chi gli chiedeva chi fosse stato il migliore fra Fausto Coppi e Eddy Merckx: «Coppi il più grande, Merckx il più forte». Si potrebbe sostituire il nome di Coppi con quello di Zoff e il nome di Merckx con quello di Buffon.

Costretti dall’anagrafe a vivere in epoche diverse, si sono impossessati del tempo come avviene soltanto per i grandissimi:

Zoff è stato il portiere italiano del Novecento, quando qualcosa era ancora possibile immaginare; Buffon quello del Duemila, epoca in cui lo stadio è diventato il salotto di casa e il pallone ha venduto l’anima alla televisione. Il calcio è molto cambiato, nello spirito e nelle regole: ai tempi di Zoff si giocava con le mani, poi, dopo Italia 90, i portieri hanno dovuto imparare a dominare palloni sempre più instabili nelle loro traiettorie e a usare i piedi.

Così qualcuno (certamente non Buffon) ha trascurato la tecnica di base, che poi sarebbe la capacità di bloccare il pallone e quella di guidare difese meno solide di un tempo.

La storia di due monumenti è illustrata da una valanga di scudetti (10 a 6 per Buffon), dalla lunga militanza nella Juve, da presenze azzurre da record (le 112 di Zoff contro le 176 di Buffon), dal titolo mondiale con la nazionale, vissuto da protagonisti (1982 e 2006) e con una parata che non verrà mai dimenticata (Zoff contro il Brasile su Oscar, Buffon sul colpo di testa di Zidane contro la Francia in finale), dalla commozione di due presidenti della Repubblica a coppa vinta (Sandro Pertini e Giorgio Napolitano), da un secondo posto nella classifica del «Pallone d’oro» (1973, alle spalle di Johan Cruijff; 2006 dietro a Fabio Cannavaro), dal dolore per la mancata conquista della Coppa dei campioni/Champions League. Zoff è stato anche campione d’Europa (1968), titolo che Buffon ha sfiorato nel 2012, perdendo in finale con la Spagna a Kiev.

Ma il filo rosso fra i due non finisce qui, perché a promuovere Buffon titolare anche in nazionale era stato proprio Zoff, quando era diventato c.t. nel 1998.

A farlo esordire in azzurro era stato Cesare Maldini, nel drammatico spareggio di Mosca sotto la neve (29 ottobre 1997, al 33’ per l’infortunio di Pagliuca), ma a promuoverlo nel ruolo era stato poi proprio Dino a partire dalla partita con la Danimarca a Copenaghen (vittoria per 2-1, qualificazioni europee, 27 marzo 1999) e da titolare avrebbe giocato l’Europeo 2000, se non si fosse infortunato nell’ultima amichevole, prima della partenza per Belgio e Olanda, a Oslo contro la Norvegia: frattura a un dito della mano e via libera a Francesco Toldo. Zoff sì che se ne intendeva (come Nevio Scala).

Fabio Monti