Amarcord Parma

Sagre e processioni: quando il sacro incontrava il profano

«Dmàn l’è la Madònna», oppure «domenica l’è sant …» e, ovviamente, il nome del santo veniva pronunciato in dialetto. Così i vecchi, nelle nostre campagne e nelle nostre montagne, alludevano al giorno in cui il proprio paese dedicava la festa alla «sua» Madonna o al santo patrono. Ne citiamo solo i più noti in ordine cronologico: «Sant’Antònni dal gozèn» ( Sant’Antonio Abate, il 17 gennaio), «Sant’Agnéza» ( Sant’ Agnese il 21 gennaio), «San Biäz» (San Biagio il 3 febbraio), «San Giuzép» ( San Giuseppe il 19 marzo che coincideva con la primavera), «Santa Rita» (Santa Rita da Cascia il 22 maggio), «Sant’Antònni da Pàdva» (Sant’Antonio da Padova il 13 giugno). Per poi passare all’estate dove la ricorrenza della Madonna o del Patrono, grazie alla stagione estiva ed al trionfo della campagna, coincideva con le sagre: «San Jàcom» (San Giacomo il 25 luglio) , «la Madònna ‘dla néva» (Madonna della neve, la prima domenica di agosto, forse per ricordare una remotissima nevicata agostana), «San Loréns» (San Lorenzo, il 10 agosto), «San Ròch» ( San Rocco, il 16 agosto), «San Bartlamè» ( San Bartolomeo, il 24 agosto), «San Genézi» (San Genesio, il 25 agosto), «La Cróza» ( la Croce, 14 settembre). Per poi portarsi ai festeggiamenti dei santi patroni autunnali ed invernali come «San Matè» (San Matteo, il 21 settembre), «San Michèl» ( San Michele Arcangelo, il 29 settembre), «San Donén» (San Donnino, il 9 ottobre), «San Martén» (San Martino, l’ 11 novembre) e «Santa Lusìa» ( Santa Lucia, il 13 dicembre).

E, per ogni festività di un Santo o di una Madonna, era prevista la processione seguita dalla messa, dalla solenne benedizione e, quindi, da un lauto pranzo. La processione era un vero proprio avvenimento che coinvolgeva tutto il paese Una quindicina di giorni prima dell’evento il sagrestano, dall’angusto magazzino ricavato per lo più nella torre campanaria, tirava fuori gli arredi e gli oggetti sacri per la processione. Baldacchini, portantine e altro venivano tirati a lucido in modo da ben figurare. Il giorno prima della processione le «rezdóre», in occasione delle processioni mariane del mese di maggio, raccoglievano il maggior numero di rose possibile da orti e giardini raccogliendo petali rossi, gialli e rosa in ampi cestini di vimini che venivano conservati al fresco nel sottoscala per essere pronti la fatidica sera da porgere ai bambini che li avrebbero sparsi lungo il tragitto dove transitava la statua della Vergine preceduta dal sagrestano che sorreggeva la grande croce. Seguivano il sacerdote, le pie donne e quindi il carro o la portantina sorretta da una pattuglia di uomini robusti. Dietro alla Madonna: gli anziani, gli uomini e i giovanotti. La processione transitava lungo le strade principali per culminare nel sagrato della chiesa. Dalle finestre delle case venivano esposte coperte e drappi con lumini, candele oppure lampadine multicolori che disegnavano una vistosa «M» di Maria. Sul carro, in campagna trainato dai buoi, accanto all’immagine della Madonna, alcuni bambini e bambine vestiti da angioletti lanciavano fiori e petali di rosa.

Popolari canti liturgici tra i quali non potevano certo mancare inni dedicati alla Madonna, si mescolavano all’aria tiepida della sera che profumava di fieno e fragranze dei campi, mentre le prime tenebre lasciavano intravedere ancora più nitidamente i lumini esposti alle finestre e il baluginio delle prime lucciole che si affacciavano all’estate ormai prossima che sarebbe esplosa con la mietitura e la trebbiatura. Mentre il carro procedeva lentamente verso la chiesa, il celebrante intonava i misteri del rosario seguiti dalle «ave marie» in latino alle quali rispondevano i fedeli in un latino maccheronico che avrebbe fatto inorridire anche il più tollerante latinista, ma che per il candore e l’umiltà di chi pronunciava quelle preghiere era ugualmente gradito a quella Madonna dalle fattezze di «rezdóra» la quale teneva in braccio un Bimbetto dalla gote rubizze proprio come quelle di quei bambini allevati a pane e tosone. Erano molto sentite anche le processioni in onore dei santi patroni dei vari paesi anch’essi particolarmente venerati in quanto la fede popolare li abbinava a qualche prodigio o a qualche miracolo accaduto sul territorio e magari raccontato dal dipinto ex voto appeso in chiesa nella cappellina dedicata al santo.

Terminata la parte religiosa della festa, iniziava quella profana con tutto ciò che può comportare una grande festa. La balera (dalle nostre parti «Festivàl») veniva montata in mezzo ai campi per dare la possibilità a giovani e meno giovani di scatenarsi in polche, valzer e mazurche. I banchetti allestiti dai vari ambulanti offrivano dalle stoviglie, al lucido da scarpe oppure giochi per i bambini. Ed ancora: «al marjonètti», i venditori di palloncini, i «bombonèn» con lo zucchero filato, le frittelle ed i croccanti, il tiro a segno («tre palle per un soldo»), lo «scimmiaro», le zingare con i pianetini della fortuna, «la stròlga ch’a lézeva la màn», l’immancabile «albero della cuccagna» dove svettava un prosciutto che doveva essere conquistato da quel robusto giovanotto che si doveva arrampicare fino alla sommità del palo abbondantemente unto e quindi scivoloso. E poi, finalmente, l’atteso da tutti momento di mettere i piedi sotto la tavola per «al disnär ‘dla sagra».

Persino il prete la domenica della sagra, anticipava l’orario della prima messa alle 6 e mezza in modo che le donne avessero più tempo per stare in cucina. Per accelerare le cose non faceva nemmeno la predica: la seconda messa restava invece all’orario solito, alle 10. A questa c’erano le ragazze più giovani che ancora non aiutavano ai fornelli, c’erano i bambini che cantavano e c’erano le donne più anziane che avevano già organizzato il pranzo ma che erano ormai esentate dalla manualità e dalle fatiche delle preparazioni. Tanta solerzia da parte del parroco di sveltire le varie funzioni non era certo disinteressata, ma dettata dal fatto che l’invitato d’onore, in certe famiglie, era proprio lui.

Il pranzo della sagra, preceduto da un bicchierata all’osteria (in estate con vino fresco di cantina, in inverno, con «na scudéla» di brodo bollente nella quale veniva versato mezzo bicchiere di vino rosso «bèvr ‘in vèn») , durava ininterrottamente fino a sera collegandosi alla cena. Non si servivano mai i salumi per antipasto, quelli venivano serviti alla fine di tutte le portate. Faceva da staffetta per «arvir ‘l stòmmogh» la «pasta raza» in brodo, subito seguita dagli anolini. In qualche famiglia, oltre agli anolini, si portavano in tavola anche i tortelli di erbetta. Dopo di che era la volta dei lessi. Chi sceglieva una fetta magra di coscia, chi preferiva il grasso bianco della punta di petto, chi chiedeva un pò di «maròlla» ( midollo) sulla quale metteva un pizzico di sale fino. C’erano commensali (tutti uomini perché le donne servivano in tavola e mangiavano con i bambini in cucina) che prediligevano la testina, la lingua ed un paio di fette «äd pjén» gialle come la polenta. Gli appassionati del pollame non si facevano sfuggire un bel pezzo di cappone o una coscia di gallina fermo restando che il «boccon del prete», bello grasso e morbido, planava sul piatto del prevosto. Il tutto accompagnato dalle salsine: «rossa», a base di conserva di pomodoro, «verde» con prezzemolo, aglio e olio, oppure «cotta», sempre con prezzemolo, conserva, aglio e cipolla, tritati ed, infine, «bianca» a base di cren (rafano).

Dopo i lessi seguivano gli arrosti che prevedevano particolari attenzioni. Infatti, quando si doveva arrostire un «nàdor mutt» oppure «‘na sjorén’na» (anatra novella), le «rezdore» ricorrevano al fornaio poiché nelle case non esistevano forni adatti per questo tipo di cottura. E il fornaio era ben felice di assolvere a questo compito, innanzitutto, perché guadagnava qualche soldo sfruttando il calore residuo del suo forno. Secondariamente, perché aveva la possibilità di farsi un’idea di cosa si mangiasse nelle varie famiglie. Una sorta di termometro delle condizioni economiche della gente del paese. Concludevano la vagonata dei secondi le fritture di galletto giovane e delle interiora di polli, conigli e oche. Se il «rezdór» era un cacciatore non poteva mancare un piatto di selvaggina, in primis la lepre, accompagnata dalla polenta. Le ossa lunghe delle gambe posteriori dell’animale erano molto contese dai commensali perché, una volta ripulite, sarebbero poi state utilizzate come bocchini per sigari e sigarette. Infine, un tripudio di dolci fra i quali l’immancabile «bosilàn» da «pociär in t -la malvasia».

E poi tutti a ballare nel «festivàl», monumentale marchingegno fatto con estro e fantasia, interamente di legno, ricoperto da un grosso tendone che ondeggiava alla brezza della campagna. All’ingresso due casse, una per gli uomini e l’altra per le donne. E i servizi igienici? Ovviamente dietro il «festivàl», ricavati in una specie di sgabuzzino con tanto di porta lignea trattenuta da un gancio. Nei «festivàl» più spartani, la toilette, era unisex se non addirittura «nature», ossia direttamente nei campi.

Lorenzo Sartorio