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Tradizioni: aglio, i mille usi del prodigioso ortaggio
Per qualcuno avrà un odore sgradevole, altri ancora, quando lo mangiano, vengono tenuti alla larga da amici e famigliari perché il loro alito è asfissiante. In tutti modi l’aglio, in «pràmzan» «àj», è una verdura che con la parmigianità si è imparentata da tempo. Intanto, uno dei mangiari tipici di un «pramzàn dal sas», al «cavàl pisst», se è privo di una concia che preveda un calibrato aroma d’ aglio, non è del tutto convincente specie «dedlà da l’acua», dove i mangiari popolari, almeno un tempo, erano più diffusi. Basti pensare ai profumi che provenivano dalle cucine «äd Bórogh Bartàn e äd Bórogh Santa Maria».
Ad esempio, nelle vecchie osterie come quella del «Sórd in bórogh Sòrrogh», «ädla Capanära in bórogh Paja», di «Mederico in vjäl Mentana angol con bórogh dal Navìlli», al «Cavallo Bianco» in «Strä Nóva», nella terrina che conteneva «al cavàl pisst» non mancavano certo una o due «polèssi» (spicchi) d’àj».
Secondo un’antica consuetudine contadina, chi voleva ottenere aglio davvero sano e saporito, doveva seminarlo per San Simone (28 ottobre) coniugando il saggio adagio «s’at' vól un bél ajón piantol par San Simón» rammentandosi, però, di raccoglierlo a metà giugno stendendolo a dovere nell’aia nella notte solstiziale del 23 affinché traesse forza, salute e vigore dalla magica «rozäda äd san Zvàn». Dopo di che veniva venduto. I venditori di aglio li si poteva incontrare soprattutto nei mercati e nelle sagre con le loro bianche e «profumate» collane a tracolla ben legate in robusti mazzi, mentre gli esemplari più belli li tenevano in mano mostrandoli alle curiosissime «rezdóre». La nostra gente dei campi, per l’aglio, serbava una vera e propria venerazione in quanto era uno degli aromi «ruffiani» capace di insaporire minestre e pietanze nonché quelle «zuppe lente» che borbottavano tutto il giorno nella pentola sistemata sul camino o sulla stufa. Per gli anziani con problemi di masticazione, era il principale e insostituibile insaporitore di quella zuppetta ricavata con pane secco, acqua, sale, una foglia di lauro, un filo d’olio e una spolverata di parmigiano comunemente chiamata «panadella» oppure, nel langhriranese, «briga dill dònni», in quanto, l’esecuzione del piatto, richiedeva poco tempo, poca fatica ma, soprattutto, scarsissima fantasia. Un tempo non vi era nessuna cucinona contadina che non prevedesse, appesa al muro, una collana d’ aglio. E, questo, per una serie di motivi ben precisi: innanzitutto la «rezdóra» non poteva farne a meno, talune verdure si sposavano solo con lui: i radicchi di campo, «il spréli», la «bjäda» (barbabietola rossa) e la cicoria amara («ravisi amäri»). Inoltre era considerato un portentoso antidoto contro il malocchio capace di tenere lontani gli spiriti maligni e i vampiri che la tradizione popolare vuole siano i «parpastrél» (pipistrelli). Quando in campagna, specie in inverno, si abbatteva un’epidemia influenzale che, tempo addietro, non si curava certo con gli antibiotici, ma con altri medicamenti molto più spartani che portavano alla guarigione (sempre che la fortuna fosse stata propizia all’ammalato che in caso contrario subiva ben altra sorte), gli anziani tenevano in bocca uno spicchio d’aglio che li avrebbe protetti dal contagio, mentre ai bimbi afflitti dai vermi, la «medgón'na», consigliava alle mamme di inghirlandare il piccolo con collane d’aglio per cacciare i pericolosi parassiti. Comunque l’aglio faceva parte dei condimenti quotidiani.
Ai ragazzi, a merenda, le nonne sfregavano l’aglio sul «pan brostolì» (molto probabilmente si sarà trattato dell’antesignano padano dell’odierna «bruschetta»), veniva tritato nella salsina verde che accompagnava i lessi domenicali, mentre «al garatón äd manz» (lesso) veniva «steccato» con una o due «polèssi». Anche la «pistäda äd gras» per il minestrone, oltre il lardo e le altre verdure dell’orto (sedano, carote, prezzemolo e cipolle), prevedeva un bel trito d’aglio che accompagnava pure tutte quelle frattaglie, in primis «al rognón», e quelle verdure che la cuoca intendeva cucinare «trifolate», ossia con un trito finissimo di «bognerba» (prezzemolo) al quale veniva aggiunto aglio tritato. La patata di «nòstor véc'» amava l’aglio, sia bollita («al verde») e cioè condita con un trito di prezzemolo, olio e aceto, che fritta «in-t-al dolégh» accompagnata da spicchi d’aglio. In alcune zone, specie della Bassa, l’aglio veniva dosato e aggiunto nelle conce per i salami ai quali dava un sapore appetitoso e invitante. Le «rezdóre» che intendevano dare maggiore sapore ai cibi, usavano «l’àj véc'» (l’aglio vecchio) e cioè quello più forte e saporito, mentre quello giovane serviva a dare solo un leggero sapore. Mentre i «polón äd l’àj», ossia i suoi talli, venivano raccolti, bolliti e fatti passare al tegame con burro e una abbondante spolverata di parmigiano come da un’ antica e rara ricetta di Stefano Giaroli, titolare dell’omonima azienda agricola di Traversetolo, dove un aglio davvero speciale (anche a detta di qualificati esperti) viene accarezzato dalla brezza del Rio Masdone. Per questo motivo fu battezzato «l’Aglio del Masdone».
L’aglio era e, per i tradizionalisti è fortunatamente rimasto, un ingrediente essenziale per le salsine da lesso sia crude che cotte, eccezion fatta per la salsa di rafano («cren») che non voleva nessuna altra aggiunta se non sale, olio, una lacrima di aceto buono, oppure un goccio di grappa. Una particolare varietà di aglio è il cosiddetto «aglio orsino», variante selvatica dell'aglio comune.
Si tratta di una pianta spontanea molto usata in cucina e ricchissima di proprietà benefiche. Non è altro che la versione selvatica dell’aglio comune. Il suo nome curioso, deriva dal fatto che gli orsi, appena si risvegliavano dal letargo, ne consumavano in gran quantità per rigenerarsi e recuperare le energie perdute durante il periodo freddo. Una pattuglietta di giovani di Marra, perla in pietra antica dell’alta Val Parma, in primavera, raccolgono questa erba profumatissima (al pari della «cugina» erba cipollina) ricavandone un pesto che nulla ha di che invidiare a quello al basilico. Patate lesse di Marra condite con pesto di «aglio orsino» (ovviamente raccolto nelle radure dei boschi locali) è stata quindi una piacevole ed inaspettata riscoperta di alcuni giovani ai quali stanno a cuore le antiche tradizioni del loro paese. L’aglio fu ingrediente base anche per le pozioni magiche figurando in molte misture contro il malocchio.
Le giovani che, dopo un pranzo o una cena a base di piatti cucinati con aglio dovevano recarsi a ballare, per mitigare gli effetti di una mefitica alitosi, usavano masticare mazzetti di prezzemolo fresco che, secondo le antiche usanze, avrebbe avuto il potere di neutralizzare il fetore causato dall’aglio. Le più raffinate, al posto del prezzemolo, tenevano in bocca una foglia di menta o un chiodo di garofano. Saranno stati rimedi efficaci? A questo punto sarebbe stato interessante chiederlo ai ballerini a meno che, anche loro, avessero mangiato cibi conditi con aglio. Cosa, un tempo, possibilissima.
Lorenzo Sartorio