L'intervista

Alberto Malesani: «Parma, il punto più alto della mia carriera. Il nostro calcio era all'avanguardia»

Vittorio Rotolo

Per comprendere quanto moderno e spumeggiante fosse il gioco del Parma di Alberto Malesani basta andare su internet e riguardarsi l'azione del terzo gol rifilato al Marsiglia, nella finale di Coppa Uefa 1998-99. Thuram si sgancia in avanti, «dialoga» con Fuser e serve Veron: l'argentino scodella al centro dell'area un pallone invitante, velo di Crespo e «sassata» di controbalzo di Chiesa che il portiere avversario non vede partire né arrivare a destinazione. Da manuale del calcio. I gialloblu mettono in bacheca il secondo trofeo, dopo la Coppa Italia. Ne arriverà anche un terzo, la Supercoppa italiana, in cento giorni memorabili.

Tutto era cominciato l'estate precedente: quella del 1998, venticinque anni fa esatti. Per inseguire il sogno scudetto, la scelta della famiglia Tanzi era ricaduta proprio sul tecnico veronese: giovane, emergente, con idee brillanti e innovative. Quel Parma era davvero una corazzata: due campioni del mondo in carica (oltre a Thuram c'era Boghossian), altri due che lo sarebbero diventati qualche anno dopo (Buffon e Cannavaro, quest'ultimo anche futuro Pallone d'Oro), un signor difensore del calibro di Sensini. E ancora Dino Baggio, Vanoli, Fiore, Balbo, Stanic. «Una squadra nata per vincere» afferma oggi Malesani, ripercorrendo con la «Gazzetta di Parma» l'esperienza che non esita a definire come «il punto più alto» della sua carriera da allenatore.

Parla principalmente a livello di risultati?

«Non solo. Parma mi ha permesso di realizzare anche un altro sogno che si affianca al legittimo desiderio, proprio di ogni tecnico, di vincere trofei importanti: qui ho avuto la possibilità di allenare grandissimi campioni. Il primo anno, in particolare, si era creata un'alchimia perfetta, che raramente si vede nel calcio: una società strutturata e ambiziosa, l'entusiasmo della tifoseria, un gruppo di lavoro straordinario».

Ci sarebbe voluta solo la ciliegina sulla torta: lo scudetto.

«Ci siamo andati vicini, nel 1999: abbiamo battuto praticamente tutte le grandi e fino alla metà del girone di ritorno eravamo lì».

Cosa è mancato anche alle stagioni successive?

«Sono stati commessi alcuni errori, come la cessione di alcuni pezzi pregiati: prima Veron e Sensini, l'anno dopo Crespo. Comprendo tuttavia che, in certi casi, si fossero create situazioni indipendenti dalla volontà societaria, dal momento che qualche giocatore aveva espresso il desiderio di andare altrove».

Resta il rimpianto, forse?

«No, affatto. Vede, io sono sempre stato un aziendalista convinto: del resto provengo da quel mondo. Oggi tutti gli allenatori si lamentano laddove la campagna acquisti condotta dai propri dirigenti non viene ritenuta all'altezza delle aspettative. Io penso invece che un tecnico debba sempre essere ben integrato nella gestione del club. Il Parma aveva fatto le sue scelte, che senso avrebbe avuto opporsi?».

Cosa sarebbe servito per compiere il definitivo salto di qualità?

«Semplicemente mantenere intatta l'ossatura della squadra e aggiungere tre innesti, uno per ogni reparto. E allora sì che lo scudetto non sarebbe stato più un miraggio. Certamente serviva anche un po' di pazienza per creare la giusta mentalità in una squadra che, pur di valore, non era il Milan, l'Inter, la Juventus. Con Ferguson, il Manchester United ha impiegato sette anni per conquistare il primo titolo. Ne sarebbero arrivati altri dodici. Solo dopo, però».

Che effetto le fa sentire addetti ai lavori e commentatori concordi nel definire Parma-Marsiglia un «manifesto» di calcio all'avanguardia?

«Mi fa piacere. La rivedo spesso, quella finale di Mosca, sa? E non mi stanco mai di farlo. È l'emblema dell'equazione perfetta che il Parma era stato capace di formulare sul rettangolo verde: campioni più gioco uguale divertimento. Prenda la nostra linea difensiva: Cannavaro, Sensini e Thuram accompagnano la manovra, spingendosi fino a trenta metri dall'area avversaria: è quello che oggi si vede fare alle grandi squadre. Noi questa idea la mettevamo in pratica un quarto di secolo fa. A facilitare l'applicazione di concetti innovativi, in quel Parma, era di sicuro la qualità degli interpreti. Ma anche la loro disponibilità: i calciatori mi seguivano».

Tra i pali aveva il giovane Buffon.

«Pretendevo che il portiere avesse la capacità di leggere tatticamente la gara. Gigi non ho avuto bisogno di istruirlo al riguardo: in lui, questa caratteristica era innata. Ho capito subito di avere di fronte un'autentica fuoriserie del calcio».

È vero che si è innamorato del vino proprio durante una trasferta europea del Parma, a Bordeaux?

«Sì, sono sempre stato curioso di conoscere usi e costumi dei posti dove andavo. Era una forma di arricchimento culturale. A Bordeaux ho quindi iniziato ad accarezzare questo sogno extra calcistico, che in futuro avrei coronato: l'azienda vinicola mi ha dato tante soddisfazioni. Recentemente l'ho ceduta all'imprenditore Sandro Veronesi, che sono sicuro potrà ulteriormente migliorarne il posizionamento sul mercato».

A proposito di Bordeaux, sempre Coppa Uefa 1998-99: lo sa che la goleada del ritorno, 6-0 al Tardini, resta la vittoria più larga di sempre in Europa nella storia del Parma?

«Una partita studiata in maniera minuziosa: siamo riusciti a sfruttare gli errori di posizionamento, in fase difensiva, del Bordeaux. Durante la settimana capitava di provare in allenamento determinate soluzioni e giorni dopo mostrare ai giocatori come, applicando quelle cose, si fosse trovata con maggiore facilità la via della rete. Col Bordeaux andò proprio così. Ma non fu l'unica volta».

Lei che tipo di allenatore si considera?

«Compito di un tecnico è mettere i giocatori nelle condizioni di esprimere al meglio le proprie potenzialità. Io distillavo concetti di gioco, ma ho sempre lasciato liberi i calciatori di sprigionare il loro talento e di divertirsi. Perché non dimentichiamo che nel calcio c'è anche l'aspetto ludico. Se uno è bravo nel dribbling, non vedo il motivo per il quale dovrebbe essere limitato nell'esecuzione di un gesto tecnico che gli viene naturale. Per un allenatore è un problema in meno, nel senso che non deve scervellarsi più di tanto nel ricercare strategie per superare le linee avversarie e proseguire l'azione».

Che ne pensa del nuovo corso azzurro?

«Spalletti è l'uomo giusto per rilanciare la Nazionale: ha esperienza e la giusta maturità».

Il Parma che tenta l'assalto alla A, invece, come lo vede?

«È una piazza che manca alla serie A. Il Parma ha tutte le carte in regola per centrare l'obiettivo, a cominciare dalla sua guida tecnica: Pecchia è bravo. E alle spalle ha una grande scuola calcistica, quella di Benitez».

Le manca il calcio?

«No, non mi manca. Sto bene così. Il calcio può anche essere semplice, ma se lo fai in una certa maniera ha molteplici aspetti che vanno curati e studiati. Io ritengo di essermene nutrito a lungo».

Vittorio Rotolo