Rugby donne

Gaia Buso: «Sogno il debutto con la maglia azzurra. In campo mi affido all'istinto»

Vittorio Rotolo

Vincere la timidezza attraverso lo sport? È davvero... un gioco da ragazzi. La storia di Gaia Buso è quasi paradigmatica: datele un pallone e un campo da rugby e questa ragazza vi mostrerà come si fa. «Questione anche di istinto, quando gioco mi affido a quello» chiarisce subito lei, 21 anni compiuti da poche settimane e arrivata a Colorno nella passata stagione direttamente da un altro top club della serie A Elite femminile, Villorba.

Velocità, gamba, buone mani: il talento di Gaia non è passato inosservato nemmeno agli occhi dello staff tecnico della Nazionale. Invitata per tutti i raduni degli incontri del Sei Nazioni, Buso nei giorni scorsi ha preso parte alla tre giorni parmigiana delle azzurre in preparazione al WXV, la nuova manifestazione istituita da World Rugby. E sarà presente anche al prossimo ritrovo, dal 15 al 17 settembre. Altri passi verso il primo cap con l'Italia, ora più vicino. «Sarebbe bello perché andrebbe a ripagare tutti i sacrifici e gli sforzi fatti finora. Ma il debutto azzurro non deve diventare un chiodo fisso» scandisce il secondo centro delle Furie Rosse. «L'attesa la vivo con tranquillità, restando concentrata sul lavoro. Come dico sempre, allenandomi con la Nazionale comincio intanto a farmi i muscoli. Il resto verrà da sé». Gaia, per sua stessa ammissione, è una che parla poco. In compenso, i suoi occhi rivelano molto. Ma davvero tanto di più. Quando glielo fai notare, sorride. E abbassa leggermente lo sguardo.

Rieccola sbucare fuori, la timidezza.

«Fa parte di me, del mio modo di essere. Però il campo stravolge tutto: il gioco aiuta ad acquisire quel pizzico di sana sfrontatezza che ti porta a compiere determinate scelte in partita, rendendo naturale l'esecuzione dei gesti».

Come procede il suo inserimento nel gruppo azzurro?

«Il raduno di Parma ha rappresentato per me la terza convocazione ufficiale, dopo quello di Pergine Valsugana e l'altro di luglio in occasione del test match contro la Spagna. Quel giorno sono andata in tribuna, ma ho fatto riscaldamento insieme alle altre: ero di sicuro più agitata di loro».

Quanto la sta aiutando la presenza, in Nazionale, di tante compagne del Colorno?

«Sicuramente è un vantaggio. E comunque conoscevo già altre ragazze: Granzotto, D'Incà, Vecchini, Stevanin. Vedo un gruppo unito: alla sera ci rilassiamo giocando a carte».

In realtà una maglia azzurra l'ha già indossata, vero?

«Quella della Nazionale Seven: ho partecipato ai tornei di Algarve, Amburgo e Cracovia, quest'ultimo valido per le qualificazioni alle Olimpiadi di Parigi 2024».

Andiamo alle origini della Gaia rugbista: quando ha iniziato?

«Avevo nove anni e ce ne ho messi almeno due per convincere la mamma a farmi provare. Ora anche lei è molto contenta che io pratichi questa disciplina».

L'impatto com'è stato?

«Al campo del Villorba ero l'unica bambina, Il primo allenamento l'ho passato più che altro a fare elementi di ginnastica artistica: ruote e spaccate. Poi, però, c'è stato un episodio che ha fatto scattare in me la scintilla».

Ce lo vuol raccontare?

«C'era un altro bimbo della mia stessa età, ma che fisicamente era il triplo rispetto a tutti noi altri: prendeva la palla e andava in meta resistendo a quei cinque o sei che gli si appendevano alla maglia, senza riuscire a fermarlo. Ho dovuto pensarci io: placcaggio perfetto, tra lo stupore generale di tutti i genitori che, fino ad allora, mi avevano guardato con diffidenza. Solo perché ero una bambina in mezzo a tanti maschietti».

Ritiene che ci siano ancora tanti pregiudizi rispetto al rugby femminile?

«Ancora sì, purtroppo. Anche se per fortuna in misura minore rispetto al passato. Oggi ci sono molte più ragazze che iniziano a praticare questo sport già nelle scuole. I pregiudizi scaturiscono dalla mentalità: se sei aperto di vedute, capisci che il rugby è per tutti».

A Villorba, quindi, lei ha fatto da apripista allo sviluppo del movimento femminile?

«Dopo i primi allenamenti, in effetti ho cominciato a promuovere il rugby con le mie compagne di classe. E insieme abbiamo coinvolto le nostre sorelle. Qualcuna di loro ha iniziato con il touch. Come la mia sorella maggiore, Syria, che poi con Villorba nel 2019 ha vinto uno scudetto».

Gaia, lei nel rugby ha trovato la sua dimensione. Però è sempre stata una grande sportiva.

«Prima della palla ovale mi sono cimentata nel pattinaggio artistico e nel nuoto. A 13 anni, invece, oltre al rugby facevo pure atletica e sci. Le mie giornate erano sempre piene. A un certo punto volevo fare persino hockey su ghiaccio, ma la sede degli allenamenti era piuttosto distante da casa mia».

Altre esperienze nel rugby?

«Ho fatto un anno all'estero, nel periodo delle superiori: in Inghilterra, un college vicino Brighton, giocando lì. Poi è arrivata la pandemia che mi ha costretto ad anticipare il rientro. Resta un'esperienza importante per la crescita. Lezioni, studio delle materie rigorosamente in inglese, allenamenti: di annoiarsi, non c'era tempo».

Le Furie Rosse cosa hanno significato per lei?

«Una grande opportunità: sapevo di trovare un club organizzato. Anche per questo ho scelto di proseguire gli studi universitari a Parma: sono iscritta a Psicologia. Quando sono arrivata a Colorno, volevo prima di tutto ritrovarmi: la maturità mi aveva tolto molte energie e in più mi ero fatta male al crociato. A Villorba ero rientrata per le ultime partite, finale scudetto compresa: anche se non ero titolare quel tricolore, se fosse arrivato, l'avrei comunque sentito mio».

Che reazione ha avuto quando si è ritrovata titolare a Colorno?

«Di sorpresa. Non avevo ancora nemmeno un ruolo definito: a Villorba ho sempre fatto l'apertura, mentre in serie A l'ala. A Colorno, invece, agisco da secondo centro».

In Club House ora aspettano solo di poter appendere la sua prima maglia azzurra.

«Speriamo di non farli attendere troppo allora...».