INTERVISTA
Roberto Ferrari, fisico nucleare bardigiano: "La conoscenza dell'Universo è il mio scopo"
L'incredibile storia di uno scienziato "nato in fondo a Bardi"
Quando parla di particelle, atomi, bosoni e fotoni non si ferma più, è un fiume in piena: Roberto Ferrari, bardigiano doc, fieramente montanaro, la fisica ce l’ha nel sangue. Per lui è lavoro e passione: una fortuna che non è da tutti, e ne è ben consapevole. Quel bambino che scorrazzava in braghe corte in un lontano angolo dell’Appennino parmense ne ha fatta di strada: da 38 anni divide il suo tempo fra l’Istituto nazionale di Fisica nucleare (Infn) di Pavia e il Cern di Ginevra. Nella terra natia ci viene appena può, per ricaricare le pile.
Professor Ferrari, come è nata questa straordinaria passione per la ricerca e per la fisica nucleare?
«Sono sempre stato curioso, fin da bambino mi facevo domande sul mondo, su come è nata la vita, sull’universo. Ho sempre avuto una spiccata attitudine per la matematica. Quindi per me è stato abbastanza naturale studiare fisica e dedicarmi alla ricerca. Dopo il liceo riuscii ad entrare alla Normale di Pisa, ci rimasi un anno poi venni a Parma. Erano anni in cui l’Istituto di Fisica era guidato da Roberto Fieschi. Per me è stata una scuola di scienza, ma anche di vita. Volevo laurearmi con una tesi sperimentale sulle particelle. Dato che a Parma non era possibile, un mio docente, il professor Marchesini, mi trovò la strada per una tesi esterna, a Pavia, con un gruppo che lavorava al Cern. Dopo la laurea, nel 1985, sono rimasto a Pavia, prima con una borsa di studio e poi da ricercatore Infn, in rapporto stretto e continuativo con il Cern».
In 35 anni di lavoro, di esperimenti ne ha fatti tanti, ma se si va a cercare nella sua biografia, si scopre che la sua notorietà è dovuta al “Bosone di Higgs”. Semplificando, ci può dire chi era costui?
«Ci provo. Dagli anni ‘30, crediamo che esistano due tipi di particelle: quelle che compongono la materia, i fermioni, e quelle che propagano le forze, i bosoni. I bosoni permettono ai fermioni di interagire e formare la materia. Però sappiamo descrivere solo bosoni che viaggiano alla velocità della luce. Sempre negli anni ‘30, è stata scoperta la forza debole, che se n’infischia di questa regola. I suoi propagatori, i bosoni W e Z, sono pesanti e lentissimi. Per risolvere l’enigma, Peter Higgs, negli anni sessanta ha ipotizzato l’esistenza di una nuova forza che agisce sui bosoni W e Z e rallenta i loro movimenti. Una nuova forza implica un nuovo propagatore, il bosone di Higgs. Nei primi anni ‘70, risultati teorici e sperimentali hanno dato solidità a questa ipotesi. È così nato il “Modello Standard” della fisica delle particelle, basato sui principi della meccanica quantistica. Tuttavia a lungo, il bosone di Higgs è stato un enigma. Non si riusciva a trovare. Nei primi anni 2000, al Cern, è stato costruito il più grande acceleratore del mondo, l’Lhc (Large hadron collider), di 27 chilometri. Un acceleratore può essere paragonato a un enorme microscopio, più alta è l’energia e maggiore è l’ingrandimento. Con un microscopio più potente si possono vedere strutture (o particelle) prima invisibili. Trovare il bosone di Higgs, o dimostrare che non esiste, era uno degli obiettivi principali dell’Lhc. Un obiettivo anche più importante era trovare nuove particelle previste da teorie che cercano di conciliare la meccanica quantistica (che, con il Modello Standard, punta a spiegare la fisica delle particelle) con la teoria della relatività generale (che punta a spiegare la forza di gravità, ovvero come sta assieme l’universo). Questi due modelli funzionano incredibilmente bene nei rispettivi campi ma si basano su principi fisici che fanno a pugni fra di loro. Eppure, quando è nato l’Universo devono avere agito in sintonia. Su questo secondo punto, stiamo ancora brancolando nel buio. Per questi motivi, con il mio gruppo di Pavia abbiamo contribuito a costruire l’esperimento Atlas e dal 2009, quando è entrato in funzione l’Lhc, ci siamo messi a cercare tracce del bosone di Higgs nei dati. Era molto più difficile che cercare un ago in un pagliaio, ma, contro ogni previsione, già nel 2012 siamo riusciti a identificarlo e annunciarne la scoperta. Ora, a Ginevra, stiamo anche progettando un acceleratore di 100 chilometri che permetta altri passi avanti nella comprensione della natura».
Da una risposta inevitabilmente complicata, passiamo ad una domanda fin troppo banale: a che cosa serve aver isolato il bosone di Higgs?
«Le rispondo in modo altrettanto banale: per definizione, noi facciamo ricerca inutile, abbiamo come scopo la conoscenza dell’universo. E’ impossibile ipotizzare utilizzi diretti di eventuali scoperte, piantiamo semi per il futuro. Se e quali frutti daranno, non si sa, ma è così che sono stati fatti passi che hanno cambiato il destino dell’umanità».
Lei sta lavorando anche ad applicazioni concrete?
«Certo, sia nell’Infn che al Cern, studiamo applicazioni pratiche delle tecnologie che sviluppiamo. Ad esempio, l’acceleratore per bombardare i tumori che viene usato al Cnao di Pavia è stato costruito dall’Infn. Da tempo abbiamo proposto l’utilizzo di una tecnica innovativa (Bnct) contro tumori non localizzati. E non dimentichiamo che il Web è stato inventato al Cern di Ginevra».
Torniamo a Bardi, il paese dove è nato nel 1959, quando TV e telefoni erano ancora una rarità, e dove ancora oggi ama vivere…
«Io sono un bardigiano della Bardi bassa (“in fondo a Bardi”), la Bardi operaia. Eravamo tre fratelli e una sorella. Mio padre faceva il fabbro, uno zio era idraulico ed elettricista. Da quando avevo dieci anni, nel periodo estivo, andavo in officina a dare una mano, perché questo era il compito dei maschi. Mia madre non metteva un piede in officina e mio padre non apriva un cassetto del comò. Il resto lo sapete. Ho una moglie, che era vicina di casa a Bardi, e un figlio informatico che lavora per Iter, il reattore per la fusione nucleare in costruzione nel sud della Francia. Mi sento molto legato alle mie origini: amo andare per funghi (ho trovato porcini anche nei boschi attorno al Cern), ho suonato il clarinetto nella banda di Bardi, ho cantato nella corale, e non mi tiro indietro neppure con gli amici all’osteria. Mi piace camminare, soprattutto in montagna: sono andato sul monte Toubkal, in Marocco, nelle Ande, in Patagonia e Perù, e due volte nell’Himalaya, in Nepal. Posti e gente indimenticabili».
Una cosa a cui lei tiene molto sono gli incontri sulla scienza che organizza a Bardi…
«Sì, è il mio piccolo contributo di questi anni. E’ un’idea nata nel 2020, insieme a Meri Luciano e Patrizia Raggio: promuovere una serie di cinque incontri sulla scienza. Quest’anno siamo alla terza edizione. Sia nella prima, nel 2021, frenata dal Covid, che nella seconda, abbiamo avuto un buon riscontro di pubblico. Da qui al 9 dicembre parleremo di computer quantistici, delle centrali nucleari a fissione, dell’alimentazione naturale, ma anche del comportamento delle scimmie, e chiuderemo con le origini biologiche della coscienza. Lavoriamo a far sì che la scienza, a Bardi, possa diventare di casa».
Antonio Bertoncini