Scomparsa

Yuri Temirkanov: ritratto del grande direttore russo attraverso la «Traviata» al Regio

Gian Paolo Minardi

Vasta la eco nel mondo musicale e culturale per la scomparsa di Yuri Temirkanov, morto giovedì a 84 anni a San Pietroburgo, come abbiamo raccontato sulla «Gazzetta» di ieri, ricordando il suo legame con Parma: per alcuni anni infatti era stato direttore musicale del Teatro Regio, a partire dal 2009, portato dall'allora sovrintendente Mauro Meli. Un intenso ritratto del maestro russo qui di seguito, a firma del nostro critico musicale.

Lo scorso anno si era diffusa la speranza che il lungo silenzio in cui Yuri Temirkanov si era da tempo rifugiato stesse per rompersi, speranza purtroppo, smentita dalla notizia giunta giovedì e che rende più acuto il rimpianto pensando al ruolo che Temirkanov ha avuto nella nostra città.

Il primo pensiero corre al colpo d’ala recato al non facile decollo del Festival verdiano con quella «Traviata» (2007) così stupefacente per il modo intimamente rapinoso con cui Temirkanov entrò nella drammaturgia così particolare di quest’opera, senza apparenti sconvolgimenti né propositi radicali ma con quella naturalezza che era poi il tratto inconfondibile del suo ricreare la musica, una Sinfonia di Caikovskij come «La sagra della primavera» di Stravinskij. Singolare la stessa sua spontaneità del porgere, con quel gesto ridotto al minimo, senza la bacchetta ma affidato solo alle mani che sembravano quasi mimare allusivamente il plasmarsi del discorso musicale. Tratti riassunti esemplarmente nella motivazione del Premio veneziano «Una vita per la musica» assegnatogli nel 2015: «Per la leggerezza e la passionalità», che trovavano riscontro nella testimonianza di alcuni esecutori della nostra orchestra - di cui nel 2009 Temirkanov diventò direttore musicale, nonché dello stesso Festival - tutti concordi sulla naturalezza da cui si sono sentiti sollecitati, da quel gesto soltanto, senza che Temirkanov, notoriamente avaro di parole, si dilungasse in verbosi preamboli.

Gesto che era in effetti tramite di un linguaggio misterioso nell’innescare una segreta comunicazione, evidentemente carica di significati allusivi non solo per i fedeli componenti della «sua» Filarmonica pietroburghese ma anche per esecutori che per la prima volta affrontavano un confronto tanto stimolante quanto impegnativo, come appunto ha ben lasciato intendere la freschezza dell’intesa subito instaurata con l’Orchestra del Regio, divenuta nelle mani di Temirkanov strumento duttilissimo con cui sondare le ragioni sotterranee che innervano la musica, in particolare quella di «Traviata», con tutte le implicazioni e le interferenze di una drammaturgia così segreta, al di là del passo narrativo, cogliendone soprattutto la specificità musicale ed emozionale, quella «tinta» così unica con cui Verdi ha inteso far rivivere la storia della tragica Violetta, una storia ancora palpitante di realtà.

Una vicenda già dominata fin dall’inizio dal senso di morte, ci ha fatto intuire Temirkanov fin da quelle prime note del Preludio che suonavano nel loro livido pallore come trasognate, ma già cariche di presagio.

Mi tornano alla memoria le parole di Temirkanov rispondendo alla mia domanda se quel finale di «Traviata» poteva richiamare quello della «Patetica» di Caikovskij: «E’ vero che in entrambi i casi il finale prevede morte e tragedia, ma in Traviata la morte non ha una connotazione temporale e fatale, come nella Patetica. Nella sua ultima sinfonia, secondo me, Caikovskij scrive presentandosi come un uomo pieno di coraggio e orgoglio di fronte alla morte, che, dopo tutto, è un fenomeno inevitabile per tutti. Non mi piace quando l’Adagio conclusivo è suonato in modo triste e lacrimevole. Non sono d’accordo con questa interpretazione. E’ l’ascoltatore che deve piangere, non la musica». Si intravede la grande lezione di Mravinsky, suo indiscusso maestro, lasciando trasparire quella filigrana di classicità che era nella mente di Caikovskij, benché erosa dal tarlo del destino.