Tutta Parma
Bombardamenti aerei: quando “volava” Pippo e tutti correvano nei rifugi
I media, da un po' di giorni, ci trasmettono immagini dal Medio Oriente che mai ci saremmo aspettati di vedere anche se il conflitto russo-ucraino continua a sconvolgerci. Immagini di guerra, di violenze, di morti, di bombardamenti dal cielo, dal mare e dalla terra. E, poi, quei tenebrosi cunicoli dove transitano morte e violenza. Ma ciò che fa ancora più impressione, in relazione ad entrambe le attuali guerre, sono i rifugi, quei bunker dove sono asserragliate intere famiglie con altrettanti bimbi che hanno perso il sorriso poiché non vedono più nè il sole, né la luna e le stelle, ma solo soffitti che molte volte tremano come le mani dei loro genitori e dei loro nonni. Fino ad ora i rifugi antiaerei facevano parte di quei tristi ricordi della guerra che ci erano stati trasmessi dai nostri padri e dai nostri nonni i quali, poveretti, avevano vissuto in diretta quegli anni da incubo sia al fronte che nelle proprie città in quanto i bombardamenti incombevano notte e giorno. Sembravano ricordi lontani. Lontani da una realtà che aveva visto la fine della guerra con la conquista della pace e della libertà.
Ci sembravano arcane leggende i racconti dei rastrellamenti, delle esecuzioni sommarie, delle deportazioni, degli arresti, delle torture. Invece, eccoci daccapo. Ed ecco, allora, riaffiorare drammatici amarcord su qualche vecchio muro della città dove sono ancora visibili le insegne con quella «R» accompagnata da una freccia che indicava i vari rifugi antiaerei. Quando dalle torrette di vedetta scattava l'allarme, il tanto temuto «fis'ción», la gente si fiondava di giorno o di notte nelle cantine oppure nei rifugi più vicini. E lì, con la paura che si faceva fiato e affannoso respiro, attendeva che arrivasse il segnale di cessato allarme per poter nuovamente riprendere, ognuno, la propria attività. Ma con l'insidia che, dopo poche ore, l'allarme avrebbe nuovamente emesso il suo straziante ululato. Come già precedentemente annunciato in un articolo del 2016, nel maggio 2010, fu pubblicato un interessantissimo volume «Nei luoghi della guerra e della Resistenza Parma. Un itinerario di studio condotto da studenti e per studenti» (per i caratteri di «Stamperia»). Si trattava di un progetto didattico promosso dal Comune di Parma, dall'Istituto storico della Resistenza e dal Centro sudi per l'infanzia e l'adolescenza con contributi dei ragazzi dei licei Marconi, Porta, Romagnosi e delle scuole medie Toscanini, Don Cavalli, Maria Luigia, Malpeli, Vicini, Newton per il coordinamento di Mariastella Carpi, Marco Minardi e Federica Piola.
In relazione ai rifugi antiaerei elencati nella pubblicazione in oggetto, molto interessante è una ricerca di Matteo Bricchi e Alessandro Rivara del Liceo Marconi-Brocca: «Per difendersi dai bombardamenti in città vennero messi in atto diversi provvedimenti. Innanzitutto nei sotterranei e nelle cantine dei palazzi ritenuti più robusti e in grado di resistere ai bombardamenti vennero organizzati una serie di rifugi antiaerei. I più capienti a Parma, furono quelli della Pilotta (che poteva ospitare 1.400 persone) e quello della Camera di San Paolo in cui ci stavano 1.000 persone; i rifugi erano aperti ventiquattro ore su ventiquattro e, come veniva dato l'allarme che segnalava l'avvicinarsi dei bombardieri alleati, le persone vi accorrevano e vi passavano talvolta anche molte ore. Questo li rese luoghi frequentati anche da uomini del movimento clandestino, i partigiani, che in città svolgevano propaganda e lotta armata contro tedeschi e fascisti, come testimoniano le richieste di maggiore controllo che i comandi tedeschi inoltravano alle autorità fasciste.
Un secondo provvedimento fu quello di istituire delle vedette sugli edifici più alti per avvistare gli aerei nemici in arrivo e dare l'allarme in tempo in modo da permettere ai civili di rifugiarsi. Infine l'ultimo provvedimento fu quello di imporre l'oscuramento della città. L'illuminazione pubblica, le abitazioni, i fanali degli automezzi e delle biciclette dovevano essere oscurati: ogni fonte di luce doveva venire coperta con carta o stoffa in modo che la città risultasse più difficilmente visibile ai piloti dei bombardieri angloamericani».
Infatti le bici e le auto, per distinguersi nella notte, avevano i parafanghi bianchi. I rifugi antiaerei parmigiani erano stati ricavati in Pilotta, Tribunale, Istituto Guadagnini, (via XXIV Maggio), Sala Lunga in via Bodoni, Seminario (via XX Marzo), in via Imbriani, in via Cocconcelli, presso il «Romanini» (via della Salute), in piazzale Santafiora, Palazzo Boselli in Via XXII Luglio (come riportato di recente in un interessante articolo sulla Gazzetta di Parma di Chiara Cacciani), chiesa dei Cappuccini (vicolo Santa Caterina), San Paolo (via Melloni), San Francesco (piazzale San Francesco), in via Saffi, Convitto Maria Luigia, in via Paciaudi presso la scuola «Giordani», in piazzale Bottego, in Palazzo Medioli (Ghiaia), Monastero San Giovanni, Genio Civile (piazza della Prefettura), viale Gorizia nella scuola «Corridoni», in strada D'Azeglio «Paolotti», nel Palazzo Agricoltori (piazzale Barezzi), in viale dei Mille e in piazzale Barbieri. Un altro rifugio, della capienza di una sessantina di posti, era stato ricavato nelle mura della Cittadella dietro l'abitazione del custode della Raquette Dante Paradisi, in via Racagni, mentre un altro riparo, per i residenti della zona, era stato allestito nelle cantine dell'Avviamento Pietro Giordani sullo Stradone. Un importantissimo lavoro di catalogazione dei rifugi antiaerei parmigiani è stato reso possibile dallo studioso e storico Andrea Di Betta, archivista e studioso di storia militare nonché collaboratore dell’Isrec.
Ma non sempre la sirena degli allarmi era in grado di funzionare a causa dell'interruzione delle linea elettrica ed allora si utilizzavano le campane delle varie chiese come riportavano i manifesti fatti affiggere in città a cura del «Comitato provinciale protezione antiaerea».
Le chiese abilitate per trasmettere l'allarme erano: San Giovanni, San Benedetto, San Sepolcro, San Pietro d'Alcantara, Sant'Ulderico, Ognissanti, San Giuseppe, Santa Croce, Oratorio dei Rossi, Santissima Trinità, le cui campane dovevano suonare a martello per la durata massima di 10 minuti. Le stesse campane avrebbero poi dovuto suonare a distesa, sempre per 10 minuti, in caso di cessato allarme. Nell'interessante volume: «Parma 1943-1945, le ferite della guerra e la rinascita della città» di Marco Pellegri (Mup editore - 2006), sono riportare interessanti notizie. «Dopo l'8 settembre la segnalazione d'allarme, seppure in essere sin dall'inizio del conflitto, riveste una particolare necessità. Per il percorso che compivano gli aerei alleati, la prima segnalazione di pericolo giungeva dai punti di avvistamento del Monte Prinzera, sopra Fornovo - che era il principale e che raccoglieva il segnale dalla Liguria - sia di Segalara presso Ozzano Taro e del Fornello di Piacenza.
Uno speciale strumento, simile ad un fonografo, avvertiva l'addetto alla sorveglianza dell'imminente pericolo. E per telefono veniva avvertito il Comando della Milizia presso la Pilotta il quale, a sua volta, autorizzava l'uso delle potenti sirene poste in numero di tre o quattro sulla torretta dell'Università e sulla Torre di San Paolo. Mezzi sussidiari furono le sirene a mano, collegate ai loro accumulatori, montate su motocarri dell'Unpa (Unione nazionale protezione antiaerea) coadiuvate da quelle degli stabilimenti periferici. Gli allarmi erano «piccoli» o «grossi». I primi si distinguevano per soli sei urli delle sirene mentre gli altri arrivavano al numero di dieci. Ambedue preannunciavano l'arrivo dei bombardieri che, spesso, era anche di semplice sorvolo. Ed a proposito di bombardieri, i nostri nonni lo chiamavano scherzosamente Pippo. Si trattava di un bombardiere che, specie nelle ore notturne, e in perfetta solitudine, si sollazzava a sganciare bombe sulla testa dei parmigiani per poi dileguarsi nelle varie direzioni del cielo sul quale saliva il fumo, la polvere e la cenere causate dalle sue bombe. Si favoleggiò molto su Pippo fino al punto di ipotizzare che il pilota conoscesse bene la nostra città. Ma, questo, rimase comunque nel campo della leggenda. La Gazzetta di Parma dell'epoca, come sempre, fece la sua parte pubblicando periodicamente vignette che illustravano le modalità di comportamento in caso di allarme.
Lorenzo Sartorio