INTERVISTA

Moratti: "Inter, passione senza fine". L'ex patron fa un bilancio dei suoi 18 anni alla presidenza in un'intervista esclusiva

Claudio Colombo e Fabio Monti

Dieci anni fa, alle 12.27 del 15 novembre 2013, un venerdì di pioggia insistente, si celebrava il passaggio di proprietà dell’Inter: da Massimo Moratti a Erick Thohir, un ricco signore indonesiano di 43 anni, con laurea in economia presa negli Stati Uniti. Sarebbe rimasto il 20° presidente del club nerazzurro fino al 26 ottobre 2018, il giorno in cui avrebbe lasciato la carica a Steven Zhang (ancora al timone della società), prima di uscire definitivamente dal club il 25 gennaio 2019. Quella di Massimo Moratti alla guida dell’Inter resta una storia magnifica e irripetibile, non soltanto per i 16 trofei vinti, iniziata il 18 febbraio 1995, ventisette anni dopo l’uscita di scena del padre, Angelo, che era stato presidente dal 1955 al 1968 e durata per 18 anni. Padre e figlio, in epoche diverse, hanno portato l’Inter a vincere in Italia e in Europa, fino ad arrampicarsi per tre volte in cima al mondo. Gian Marco Moratti, il fratello maggiore, un giorno aveva detto: «Massimo non può stare senza l’Inter». È difficile pensare che avesse torto, guardando i quadri e le fotografie, nel suo bellissimo ufficio nel cuore di Milano, con vista sul Duomo.

Dottor Moratti, dieci anni senza Inter: come sono stati?

«Davvero sono già trascorsi dieci anni? Non ho dato mai troppa importanza alle date, a questa proprio non ci pensavo. Direi, comunque, che sono stati anni intensi, pieni di altre cose: la famiglia, il lavoro, la vita. Se mi chiedete se l’Inter mi manca, rispondo che no, non ho proprio avuto il tempo per farmela mancare».

Per la Milano nerazzurra, e per chi intende il calcio in un certo modo, il suo addio fu uno choc. Si ricorda il momento in cui decise di vendere il club?

«Non ci fu un momento preciso, certamente non dopo la finale di Madrid e la conquista della Champions League. Avevo ricevuto diverse offerte e cominciai a prendere in considerazione l’idea di chiudere questa avventura, che peraltro durava da quasi vent’anni. Dopo il Triplete c’era l’esigenza di ripartire daccapo, ma era evidente che in quel momento necessitavano spinte diverse e forze nuove. Nel 2012, eravamo andati a un passo dal chiudere l’accordo con un gruppo cinese, poi l’anno dopo, è arrivato Thohir».

Una scelta sofferta.

«Non avevo l’obbligo di tenere l’Inter, ma separarmene, ora posso dirlo, fu davvero difficile, anche se io non ho mai pensato di essere un presidente a vita. Premeva il senso del dovere che sentivo di avere nei confronti di questa società, per ciò che ha rappresentato per la mia famiglia. E poi la passione. Passione per questi colori, per la bellezza di uno sport che sa unire la gente. Liberarsi da questi legami emotivi è stata l’impresa più dura. Ma era venuto il momento di passare la mano. C’erano già le avvisaglie di quello che sarebbe diventato il mondo del pallone: questo è un calcio che una famiglia, ma dovrei dire un uomo solo, non è in grado di gestire in rapporto a un club di primissimo livello».

Diciotto anni di Inter che cosa le hanno lasciato?

«Molte gioie, qualche sofferenza, l’idea che siano trascorsi alla velocità della luce. Forse per questo non mi sono mai pesati e li considero prima di tutto un grande privilegio. Mi sono piaciuti, ne sono orgoglioso. Ho avuto la fortuna di condividerli con persone di qualità che hanno reso felice questo percorso. Penso a Rinaldo Ghelfi, il motore del club; all‘avvocato Peppino Prisco, stimato da tutti per la grazia e l’ironia con cui interpretava lo spirito della società e che tanto aveva insistito perché prendessi la società; a Giacinto Facchetti, uomo di grande disponibilità che non si è mai tirato indietro nelle situazioni difficili. E penso a Marco Tronchetti Proverà, che è stato molto più del nostro sponsor con il marchio Pirelli».

Il momento più bello?

«Come si fa a non dire il 2010, l’anno dei tre titoli! Ma ce ne sono stati tanti altri. Penso alla Coppa Uefa del 6 maggio 1998, quella del 3-0 alla Lazio: era l’Inter di Ronaldo, Zamorano, Simeone, Zanetti, Pagliuca, una squadra fantastica con una panchina fortissima. E partite singole che hanno acceso l’entusiasmo mio e dei tifosi: penso ad alcuni derby con il Milan, all’incredibile Inter-Sampdoria del 9 gennaio 2005, quando rimontammo da 0-2 a 3-2 nel recupero, alla vittoria a Torino contro la Juve del 29 novembre 2003, con la doppietta di Cruz e il gol di Martins».

E quello più doloroso?

«Calciopoli. È un colpo al cuore per tutto il movimento, anni difficili per tutti, ma soprattutto per noi, privati di vittorie che avevamo meritato sul campo. Da quel periodo terribile ne uscimmo umiliati. Si può pensare che le avversità generino nuove forze, nuovi inizi, ed è sicuramente una bella filosofia. Tuttavia in quegli anni vivemmo la sensazione di far parte di un gioco più grande di noi, dove tutto era deciso secondo regole delle quali eravamo all’oscuro. Partecipavamo al campionato, si può dire, per niente: una sensazione opprimente. Ma Calciopoli non è stata una sorpresa. La sorpresa era il muro di omertà che gran parte del calcio aveva costruito per anni intorno a questa vicenda».

Fu peggio anche del 5 maggio 2002?

«È un altro discorso. Quella contro la Lazio a Roma fu una sconfitta incredibile che ci costò lo scudetto, eppure non cancellerei dal calendario quella data, come fanno tanti tifosi nerazzurri, perché in quella stessa data conquistammo anche vittorie, penso soprattutto alla Coppa Italia del 2010, sempre a Roma. Quel giorno all’Olimpico accadde l’impensabile, ma non fui contento della caccia al colpevole che si era scatenata subito dopo. Molti se la presero con il povero Gresko».

Era la squadra di Ronaldo, Vieri, Recoba, Toldo, Zanetti.

«Appunto: era fortissima e avrebbe dovuto vincere. Anch’io commisi un errore. Dopo il primo tempo, sul 2-2, sarei dovuto scendere negli spogliatoi per dare la scossa. Non l’avevo mai fatto, mi sembrò una cosa fuori posto. Invece avrei dovuto farlo».

Tanti allenatori sotto la sua gestione. Chi è stato il migliore?

«Non faccio classifiche, per rispetto delle persone. Tutti, a modo loro, hanno dato qualcosa al club. Anche quelli con cui non è andata come pensavamo. Con tutti ho sempre avuto un rapporto diretto: li sceglievo io e toccava a me interrompere il rapporto, guardandoli in faccia, da uomo a uomo. Il momento più delicato non era comunicare il licenziamento, ma arrivare al convincimento di dover chiudere quella parentesi. Sempre, tengo a precisare, nell’interesse esclusivo del club. Con Gigi Simoni, tanto per citarne uno, non fu facile».

Con Mourinho il feeling non si è mai spezzato.

«Tra noi c’era una complicità che andava oltre l’aspetto professionale. È un allenatore che fa del lavoro la sua religione: quando si accorge che la squadra non lo segue, è come se si sentisse offeso a livello personale. Dà tutto e pretende che i suoi calciatori lo ricambino con altrettanta abnegazione: non sempre accade, e lui ci rimane male».

Tra i suoi preferiti c’è anche Roy Hodgson.

«Un esempio di grande signorilità, oltre che un conoscitore del calcio. Sento con piacere che oggi è considerato una specie di santone del calcio inglese. Se lo merita. E non dimentico nemmeno Mircea Lucescu, davvero una brava persona».

Ottavio Bianchi era l’uomo dei derby…

«Non cercava simpatia a tutti i costi e questo lo rendeva estremamente simpatico ai miei occhi. Badava al sodo ed era un motivatore eccezionale. Soprattutto prima dei derby: c’è la sua firma nel 3-1 della mia prima vittoria contro il Milan nel sabato di Pasqua del 1995».

Con Marcello Lippi non andò bene.

«Non riuscì a entrare in connessione con il club e la squadra. Può capitare anche a un grande allenatore».

E Roberto Mancini?

«Per convincermi ad ingaggiarlo mi mandò in regalo una maglia dell’Inter anni Cinquanta, con un grande scudetto tricolore cucito sopra e la promessa che con lui l’avremmo vinto. Lo presi e feci bene. È un allenatore bravo che mette tutto sé stesso per raggiungere gli obiettivi. Non è vero che trattai con Mourinho alle sue spalle già a dicembre 2007, non c’era nessuna ragione per farlo. Semmai è vero il contrario: ingaggiai il portoghese perché, dopo l’eliminazione dagli ottavi di Champions contro il Liverpool, a marzo 2008, Mancini annunciò che se ne sarebbe andato».

Lei fece anche un tentativo per avere Capello.

«Più di un tentativo. Ma i tempi non sono mai coincisi. Con una battuta potrei dire che aveva una controindicazione: era troppo…juventino».

Qual è il calciatore che l’ha entusiasmata di più?

«Alvaro Recoba: aveva tutto per piacere a chi ama il calcio. Talento, imprevedibilità, potenza e un sinistro che mi ricordava quello di Mario Corso. Non ha mai segnato un gol facile, soltanto reti meravigliose, che non si dimenticano. Se Bobo Vieri ha segnato tanto, è grazie anche agli assist dell’uruguaiano».

Il calciatore che avrebbe voluto?

«Éric Cantona. Ero presente allo stadio di Londra quando, il 25 gennaio 1995, fece la follia di aggredire il tifoso del Crystal Palace che lo aveva insultato. Avevo già raggiunto l’accordo per prendere l’Inter e pensai: ora qui in Inghilterra avrà molti problemi, è il momento buono per prenderlo. Tempo qualche ora e il Manchester United fece quadrato intorno a lui: la trattativa morì sul nascere. Fra i miei primi acquisti, c’è stato Paul Ince, preso sempre dallo United, un campione vero, anche come personalità».

Il colpo più clamoroso?

«Potrei dire Ronaldo nel 1997, invece è senza dubbio lo scambio Ibrahimovic- Eto’o. In cambio di Zlatan, grandissimo calciatore, avemmo molti soldi e un campione vero, che non a caso diventò uno degli eroi del Triplete».

Eroe che poi, a sorpresa, mollò l’Inter per trasferirsi all’Anzhi di Makhachkala, un semisconosciuto club russo.

«Gli offrivano venti milioni a stagione. Mi disse: presidente, mi capisca, tengo famiglia. Simpatico, avrei potuto dirgli di no?»

Il rimpianto?

«Andrea Pirlo: cederlo al Milan è stato un errore. Lo avevo scelto personalmente e, per averlo, ricordo che in Lega Calcio bloccai in un ascensore Corioni, il presidente del Brescia: o viene all’Inter o non usciamo di qui. Ma quando fu da noi, Pirlo non riuscì ad esprimere le sue qualità. Giocava poco e si era intristito. Forse avremmo dovuto aspettarlo…»

Facciamo un gioco. Lei torna presidente dell’Inter e deve scegliere chi prendere tra Bellingham e Mbappé…

«Bellingham è fortissimo, ma scelgo Mbappé».

Meglio Maradona o Messi?

«Dico Pelé, come Papa Francesco. Pelé avrebbe giocato nell’Inter, perché dopo il Mondiale in Svezia nel 1958 papà aveva trovato l’accordo con il presidente del Santos e il giocatore era felice di venire a Milano. Poi i tifosi assediarono la sede del club, il presidente chiamò papà, spiegandogli che stava rischiando di fare una brutta fine e allora lui decise di strappare il contratto, già pronto, ma non ancora depositato, lasciandolo in Brasile. Comunque non ho dimenticato il giorno di maggio 2008, in cui era arrivato a casa mia Maradona e quasi si era auto-invitato a pranzo. Un incontro bellissimo con un personaggio di grandissima umanità, che purtroppo si è buttato via, senza un vero perché. Due ore dopo avrei incontrato Mancini, che aveva appena vinto lo scudetto, per spiegargli che con l’Inter per lui era finita».

Il Pelé non calcistico?

«Qui la risposta è più facile: Muhammad Ali. Un fuoriclasse sul ring e soprattutto nella vita».

Ha mai pensato di rientrare nel calcio, magari in altri club?

«No, discorso chiuso. Ci sono state occasioni, ma mai tentazioni. Per rispetto dell’Inter, dei suoi tifosi, della mia storia e di quella della mia famiglia. Davvero: non ne sento il bisogno».

Resta, però, la passione di sempre.

«Certo, anche se allo stadio preferisco la tv. L’altro giorno ho visto il Milan in Champions e sono rimasto impressionato da Leao: fortissimo. Seguo l’Inter da tifoso, naturalmente, e sento un buon clima intorno alla squadra. In questo momento mi sembra solida e costante nel rendimento».

A proposito di stadio: San Siro da tenere o da abbattere?

«Non conosco le dinamiche finanziarie o edilizie di tutta la questione, ma non vedo la ragione per buttarlo giù. È un simbolo del calcio milanese e, in definitiva, di tutta Milano».

Lei sarebbe potuto diventare sindaco della città.

«Me lo chiesero tre volte in momenti diversi, da destra ma soprattutto da sinistra. Ricordo l’insistenza di Armando Cossutta, senatore di Rifondazione e grande tifoso interista. Come faccio, gli risposi, ho appena preso Ronaldo, magari qualcuno non è felice! E lui: tanto meglio per noi! Non se ne fece nulla, eppure mi sarebbe piaciuto. Non tanto la parte formale della carica, quanto la possibilità di incidere sulla vita della città e dei suoi abitanti».

Lei è sempre legatissimo a Milano e lo ha dimostrato in mille modi, ma di Parma che cosa pensa?

«Parma è una città bellissima, sorprendente e accogliente. Ha tutto per essere una piccola capitale del vivere bene: cultura, passione, cibo di prim’ordine. Non a caso il mio piatto del cuore sono gli anolini in brodo! Oltretutto, ho il dolce ricordo dello scudetto del 2008, vinto proprio a Parma sotto un diluvio universale con i gol di Ibrahimovic. Spero di vedere la squadra l’anno prossimo in serie A: sta giocando bene e se lo merita».

Che cosa non le piace di questo calcio?

«Non capisco il ritardo dei guardalinee nel segnalare il fuorigioco. Bisogna finire l’azione, dicono: e se in quei secondi, talvolta lunghissimi, un calciatore si fa male? E trovo ingiusto che un gol venga annullato talvolta per questione di millimetri. Gol meravigliosi che sfumano per la punta del piede oltre la linea: è assurdo. Abituarsi al Var è stata una fatica, per me. Ma vedo che ormai sono tutti rassegnati alle due fasi: il gol segnato e la sua revisione. Forse c’è più giustizia, ma si perde in spontaneità, ed è un vero peccato».

Molti club, in Italia e in Europa, sono nelle mani di fondi stranieri. C’è più industria che passione?

«Non trovo che sia sbagliato considerare un club di calcio come un’azienda, ma se si fa tutto nel nome del business, possono accadere cose spiacevoli. Per me, per papà per tutta la nostra famiglia, l’Inter è sempre stata passione. Quando si parla di business, bisognerebbe porsi anche qualche domanda. Ci stupiamo, giustamente, se un giocatore scommette sulle partite, ma dimentichiamo che ci sono club sponsorizzati da aziende di allibratori. Non è questo il calcio che piaceva, e piace, a me».

Lei ha portato l’Inter in cima al mondo ad Abu Dhabi e al Palazzo di Vetro dell’Onu a New York per Inter Campus. Come è nata l’idea di promuovere questa iniziativa nel 1997?

«Vorremmo fare qualcosa anche per i ragazzi e le ragazze fra i 6 e i 13 anni non proprio fortunati, perché, attraverso un pallone e una maglia nerazzurra, possano recuperare il diritto al gioco. Adesso ci pensa mia figlia Carlotta a mandare avanti gli Inter campus, che sono presenti in 31 Paesi e che continuano a ricevere consensi e adesioni».