DIALETTO

«Far di scuäsi», le «smancerie» in parmigiano. Giovanni Petrolini ci spiega la genesi dell'espressione

Giovanni Petrolini

Per esprimere concetti astratti, di dominio magari anche molto comune ma non facilmente definibili, la lingua italiana, bella e letteratissima, conosce spesso soltanto parole dotte alle quali non è sempre facile – come si dice popolarmente – “fare la moneta”, cioè esprimere “in soldoni”, ovvero in parole povere, semplici e familiari. Una di queste è certamente smanceria, una parola del parlar forbito attestata già nell’italiano trecentesco del Boccaccio. Che s’usa spiegare oggi, con parole un po’ meno difficili, come lezio o leziosaggine (che significano propriamente un modo di esprimersi o di comportarsi lezioso, vale a dire delizioso, volto cioè a deliziare, a dilettare, a innamorare, a piacere) o con una più trasparente sdolcinatezza cioè ‘espressione o effusione sentimentale sdolcinata, eccesivamente dolce’.

Vi chiederete, e francamente me lo chiedo anch’io, perché mai mi sia venuto in mente di parlare proprio di questa parolona e dei suoi sinonimi dialettali. E mi rispondo che sarà forse per un’inconsapevole reazione alle quotidiane brutte notizie di disastri, di guerre, di tragedie che insaguinano il mondo, e al fatto che oggi, forse come non mai, noi italiani, quasi a difenderci dalle ventate d’odio, di dolore e di cattiveria che la cronaca quotidiana ci porta in casa, sentiamo forte il bisogno di abbandonarci volentieri, forse troppo volentieri, a pacifiche rasserenanti smancerie d’ogni tipo. Così, mentre non lontano da noi risuonano in continuazione le sirene d’allarme per attacchi devastanti di missili o droni, da noi, nella quiete inquieta delle nostre case, attraverso i nostri domestici media, sentiamo echeggiare insistentemente, e fortunatamente, altre sirene. Sono le suadenti e allettanti pacifiche sirene d’amorevoli messaggi pubblicitari d’ogni tipo, dove ogni occasione è buona per parlarci d’amore e d’amare. Parole sacrosante, di centrale e fondamentale importanza della nostra civiltà cristiana. Forse mai come oggi così intensamente impiegate, declinate o coniugate. Non più come un tempo quasi soltanto dalla lingua della predicazione religiosa, della poesia e della canzone, ma usate, e forse abusate, un po’ dovunque in tutta la loro straordinaria latitudine semantica. Ora per promuovere il nome di un bravo e famoso conduttore televisivo come l’Amadeus nazionale (detto più familiarmente Ama); ora per reclamizzare il nome di una ditta di ottimi prodotti gastronomici come l’Amadori, con il suo iterato martellante slogan Ama… Ama… Ama che giunge a identificare i suoi fedeli consumatori con gente che ama); ora per celebrare il nome di una popolarissima e gustosissima crema di cioccolato alla nocciola, spalmabile sul pane, che con l’amore della sua dolcezza avrebbe la magica capacità di accomunare gli oltre duecento diversi pani d’Italia; ora per esaltare la bontà di una pasta di Gragnano (NA), definita “L’amore quello vero”; ora per decantare il piacere d’un comodo viaggio in treno, magnificato con una scritta a caratteri cubitali che oggi campeggia sulla fiancata di alcuni dei suoi vagoni e recita nientemeno che un amore infinito; ecc. ecc.

Quotidianamente contornati come siamo da questo amorevole coro mediatico sovrabbondante di parole dolci e manierate, parallelo ma purtroppo molto distante dalla dura realtà d’ogni giorno, coccolati da questo mondo irenico e onirico nel quale amore rima sempre con cuore e nel quale abbiamo ancora la fortuna di poterci idealmente riparare o rifugiare, mi è sembrato che valesse la pena riflettere un momento sul significato e sulla vicenda poco trasparente dell’italiano smanceria, di questa nostra parolona antica che a ben vedere è anch’essa radicalmente imparentata con parole belle e dolcissime come amore ed amare.

Smanceria, un’amorosa parola difficile

L’italiano dotto smanceria rappresenta infatti una variante (toscanamente “ipercorrettiva” direbbero i linguisti) di un più antico ricostruibile *smanzeria derivato dal sostantivo smanziere, attestato già nelle quattrocentesche Canzoni a ballo attribuite a Lorenzo il Magnifico e ad Angelo Poliziano (vd. GDLI, Grande Dizionario della Lingua Italiana di Salvatore Battaglia). Una smanceria altro non è dunque propriamente (etimologicamente) un modo di esprimersi o di comportarsi o di atteggiarsi da smanziere. Ma chi era costui? Né più né meno che un innamorato o un amante (per non dire di peggio). L’antico sostantivo smanziere deriverà infatti (per ampliamento in s- prefisso intensivante) dall’antico italiano d’origine provenzale (a)manza ‘amore’ e avrà significato propriamente “persona vaga [cioè ‘desiderosa’] di amori”. Così lo interpretava il compianto amico ed illustre linguista Giovan Battista Pellegrini vd. DEI (Dizionario Etimologico Italiano) V 3515. Ma smanziere potrebbe derivare più direttamente dal suo corradicale smanza ‘amante adulterina, ganza’ (attestato già nell’italiano cinquecentesco dell’Aretino, vd. GDLI cit.), e valere dunque più propriamente ‘frequentatore o collezionista o praticante di smanze, ovvero di amanti’. In una di quelle libertine quattrocentesche Canzoni a ballo dove già ricorre la parola smanziere si legge un singolare invito rivolto ai “giovanetti innamorati”: a non sentirsi offesi d’essere chiamati smanzieri: “non prendete alcun sdegno/ d’esser chiamati smanzieri”. Dunque una smanceria (anticamente *smanzeria) altro non fu, e non è, in buona sostanza, che un modo dolce e accattivante di esprimersi, di atteggiarsi o di comportarsi che potremmo anche definire – absit iniuria verbis – un po’ ruffiano, o un po’ puttanesco, o qualcosa del genere. Per questa via l’antica locuzione avverbiale italiana alla smanziera giunse a significare ‘al modo delle persone dedite agli amori’. Nelle Rime quattrocentesche del Poliziano si raccomanda per es. “Se tu vai, stai o siedi, / Fa d’aver sempre maniera: muover dita e ciglia e piedi/ vuolsi sempre alla smanziera,/ fa’ a tutti buona cera”, vd. GDLI cit.

Nell’italiano dell’uso più familiare e domestico, manca – come dicevo – un termine equivalente a parole come smanceria o leziosaggine, che sono solo dell’italiano colto e raffinato. Ma a colmare questo vuoto ci hanno pensato per tempo i nostri dialetti che nel senso di smanceria o di leziosaggine conoscevano invece, e spesso ancora conoscono, vari sinonimi (o quasi-sinonimi). Noi Parmigiani per esempio sino a ieri potevamo dire ora scuäSem (o scuäSi o scuäS), ora Snumm (o deSnumm), ora simitón (o semitón o smitón), vd. per es. G. Capacchi, Dizionario italiano-parmigiano, 2 voll., Parma 1992, s.v. smanceria. Parole strane che esprimevano variamente il concetto nei suoi multiformi aspetti: che possono andare dall’uso compiaciuto e accattivante di esclamazioni di devoto stupore e meraviglia (scuäSem), ad atteggiamenti di pudica ritrosia (Snumm), sino a comportamenti artefatti e un po’ scimmieschi, magari accompagnati da seduttive modulazioni del tono della voce (simitón).

Il parmigiano disusato scuäSem (o scuäSom) e l’italiano locale squaSi

Con il proposito di passare in rassegna i più comuni modi dialettali parmigiani di esprimere il concetto di smanceria, ho deciso di annoiarvi cominciando col dire qualcosa sul parmigiano scuäsem (o scuäSom), cfr. “squàsem” nel Dizionario parmigiano-italiano (Parma 1841) di Ilario Peschieri, vol. II, p. 994 e poi nel Vocabolario parmigiano-italiano (vol. IV, p. 193, Parma 1859) di Carlo Malaspina, tradotto da entrambi con “Miracolo s.m. Miracolone. Contrassegno affettato d’ammirazione”. Oggi, per evitare equivoci, potremmo parafrasarlo, e perifrasarlo, con ‘esclamazione di amorevole sentimento, di emozione, di commozione, di ammirazione, di sorpresa, di stupore o meraviglia’ o qualcosa del genere.

Sono rimasti in pochi i Parmigiani che ricordano la parola scuäSem (o scuäSom), mentre sono molti quelli che ancor oggi usano le sue varianti “brevi” scuäS e soprattutto scuäSi. Quest’ultima è entrata anche nell’italiano dell’uso locale come squaSi, specialmente nel modo di dire fare degli squaSi ‘abbandonarsi a svenevoli esclamazioni di stupore, sorpresa o meraviglia’. Già il Malaspina nel suo Vocabolario insieme a “squàsem” registrava anche le varianti “squàs” nel senso di “Sceda, Smanceria, Smorfia” e “squasi” in quello identico, o molto simile, di “Rimbaldera. Lezi o bochi o smorfie tra puerili e buffoneschi”. Ebbene di parole rare come rimbaldera o bochi, difficilmente troverete traccia nei più moderni vocabolari della lingua italiana, e il nostro Malaspina, scartabellando tra quelli antichi, niente di meglio trovava per tradurre i suoi parmigiani “squàsem” o “squàs” o “squasi” (in altra grafia scuäSem o scuäS o scuäSi).

A proposito di scuäS o scuäSi –lasciatemelo dire– dubito francamente dell’esistenza in parmigiano di una loro variante femminile singolare scuäza che Capacchi registra nel suo Dizionario italiano-parmigiano insieme ai maschili scuäz e a scuäzom. È pur vero che l’uscita in i di scuäzi (o scuäSi) potrebbe indurre a supporre l’esistenza di un femminile singolare scuäza (o scuäSa), ma per quel poco che possa valere la mia personale testimonianza dirò che non ho mai sentito un parmigiano che dicesse scuäza né tanto meno fär dil scuäzi come si dovrebbe dire se scuäzi (o scuäSi in altra grafia) fosse davvero il plurale di un femminile singolare scuäza (o scuäSa). Mi sbaglierò ma ho sempre sentito dire solo e soltanto fär di scuäSi, che il Malaspina, vol. IV, p. 193 alla voce “far di squasi” (e non – si badi bene – “far dil squasi”) traduceva con il toscano “Far le marie. Far smorfie o svenevoli meraviglie”.

La diffusione del tipo ‘scuaSo’ o ‘scuaSi

Detto questo devo anche dire che la voce del tipo ‘scuaSo (o squaSo, come la si voglia scrivere) non è solo parmigiana. È (o fu) parola dialettale d’area regionale più largamente emiliana e romagnola (cfr. per esempio il reggiano squêS 'esclamazione di stupore' e il bolognese squèS ‘id.’, vd. Alberto Menarini, Bologna dialettale. Parole Frasi Modi Etimologie, Bologna 1978, pp. 178-79, cfr. “far di squas” già nel vocabolario di Giuseppina Coronedi Berti, Vocabolario bolognese italiano, Milano, 1969, rist. dell’ediz. di Bologna del 1869-1874) ma è anche ligure (cfr. per es. lo spezzino scöasi vd. Franco Lena, Nuovo dizionario del dialetto spezzino, La Spezia 1992 e il genovese squæxi, vd. i dizionari di Giovanni Casaccia e di Gaetano Frisoni). Questo tipo lessicale si spinge anche nella Toscana nord occ., cfr. per es. il carrarese skuaSi, vd. Luciano Luciani, Vocabolario del dialetto carrarese, 2 voll., Massa 2003, s.v., ma non è sconosciuto nemmeno altrove, per es. in napoletano, irpino e siciliano.

In parmigiano la parola ricorre (o ricorreva) specialmente in modi di dire come il già ricordato fär di scuäSi o ésor pjén’na d scuäSi o ésor tutta n scuäSi 'essere tutta una smanceria; essere tutta un meravigliarsi, uno stupirsi' detto specialmente di una giovane donna che per mostrarsi graziosa, sensibile e delicata, di fronte a ogni cosa non perda (o non perdesse) occasione di manifestare grande stupore, meraviglia o emozione: per es. cla farlètta ch al s éra portè in cà l éra tutt un scuäSi 'quella fraschetta che s'era portato in casa era tutta una smanceria’. L’italiano conobbe nello stesso preciso significato locuzioni come esser tutto Gesù e Maria (o Gesummaria) o esser tutto Madonna e Gesù vd. GDLI che, accennano (o accennavano) ad un manifestare verbalmente in ogni occasione la propria religiosa stupefatta devozione (spesso tanto fervida quanto superficiale) come quella che ancor oggi spesso si esprime attraverso popolarissime esclamazioni come Gesù Maria! o Madonna! o Gesù!.

L’it. parmigiano squaSi e l’antica esclamazione toscana squaSimod(d)èo!

Anche il parmigiano disusato scuäSem (o scuäSom), e le sue varianti brevi scuäS o scuäSi, a ben vedere rientreranno in questo genere di popolari devote esclamazioni. In particolare scuäSem rappresenta (o rappresentava) il puntuale adattamento locale dell’antico toscano squàsimo, variante abbreviata, attraverso un’eufemistica omissione di deo (‘Dio’), dell’antica eslamazione (di meraviglia e sorpresa) squasimod(d)èo!, propriamente ‘spasimo di Dio!’.

Questa antica esclamazione toscana, attestata già nel Quattrocento, per es. nel poema Il Morgante di Luigi Pulci (IV, 175), rappresenta con ogni probabilità un’alterazione di spasimo di Dio!, cfr. l'antico italiano squàsimo per spàsimo 'respiro affannoso, rantolo', già nel senese Gentile Sermini, XV sec., vd. GDLI (Grande Dizionario della Lingua Italiana di Salvatore Battaglia) s.v.

Attraverso espressioni antiche come quanti squasimodèi! o fare gli scasimod(d)èi (per es. nel fiorentino secentesco di Giovanni Andrea Moniglia, vd. GDLI), l’antica popolarissima esclamazione squasimod(d)èo (che conobbe varianti fonetiche come scasimadèo, scasimoddio, scasimodèo, squasimidèo, squasimosdei, vd. GDLI), ridottasi al rango di banale e melensa esclamazione ormai del tutto svuotata di un suo preciso significato referenziale (desemantizzata, direbbero i linguisti) dovette estendersi presto e facilmente a quello generico di ‘sciocca o insulsa esclamazione di stupore e meraviglia’. Non sarà un caso che la voce squasimodèo già nel Trecento sia attestata dal Boccaccio e dal Sacchetti (vd. GDLI) come aggettivo nel senso di ‘sciocco, rozzo, incolto’. Tale in effetti doveva apparire agli occhi delle persone colte del tempo chi troppo spesso e volentieri si abbandonava a popolari e ingenue esclamazioni di stupore e meraviglia come questa. Un po’ come nell’italiano del Cinquecento l’esclamazione italiana giuraddio (popriamente giuro a Dio, cioè giuro davanti a Dio) divenne soprannome spregiativo degli Spagnoli che usavano spesso (troppo spesso) come intercalare l’eslamazione juradios.

Il nostro parmigiano fär di scuäSi (it. locale fare degli squaSi), in passato anche fär di scuäSem (o fär di scuäSom) corrisponderà insomma esattamente all’antica locuzione toscana fare degli squasSimod(d)èi, vale a dire ‘lasciarsi andare a sciocche esclamazioni di devoto stupore e meraviglia’ e altro non sarà che una sua eufemistica scorciatura. Attraverso l’omissione dell’uscita in -d(d)èi (‘di Dio’, dal lat. -Dèi), evita infatti di nominare invano il nome di Dio.

Il sostantivo dialettale parmigiano scuäSi solo per caso avrà dunque a che fare (come qualcuno vorrebbe) con l’omofono avverbio parmigiano scuäSi ‘quasi’ (dal lat. quasi ampliato in prefisso intensivante).

L’antico parmigiano scuaSón e l’antico italiano caSóSo

La proverbiale arlìa parmigiana tuttavia non s’arrestò qui. Per qualificare una persona “Che fa meraviglie d’ogni cosa” (Malaspina), dal loro scuäSi (o scuäS) (“squasi” o “squas” nella grafia del Malaspina), i Parmigiani trassero scherzosamente anche il termine dileggiativo, oggi dimenticato, scuaSón (“squasòn” nella grafia del Malaspina) nel senso di ‘persona sciocca che fa continuamente degli squasi’, cfr. “squasòn” già nel Peschieri “Miracolajo s. m. Casoso. Che fa maraviglie d’ogni cosa”.

Colgo l’occasione per dire che l’ equivalenza semantica tra l’antico parm. squasòn e l’ antico it. caSoso istituita dai vocabolaristi parmigiani dell’Ottocento, mi ha acceso – come si dice popolarmente – una lampadina (spero non illusoria).

Come? Suggerendomi che caSoSo, questo antico aggettivo italiano (già nel fiorentino Benedetto Varchi, ante 1565, si legge per es. “Erano tanto diversi l’uno dall’altro, e tanto per lo più timidi e respettivi per non dir casosi e irresoluti” vd. GDLI), non significhi propriamente ‘puntiglioso, meticoloso’, come generalmente si vuole, e dunque non derivi dall’it. caSo (attraverso il senso di ‘persona che pone continuamente dei caSi’, una specie di cacadubbi insomma), ma rappresenti piuttosto una variante aferetica (caratterizzata cioè dalla caduta di s- iniziale) di un aggettivo *scaSoSo (per *squaSoSo), che, proprio come il nostro diversamente suffissato parmigiano “squaSón”, deriverà in ultima analisi anch’esso dall’antica popolarissima esclamazione toscana del tipo squaSimod(d)èo o scaSimodèo.

L’antico aggettivo italiano caSoSo (da un precedente *squaSoSo o *scaSoSo) potrebbe aver designato dunque propriamente non tanto una persona che pone continuamente dei caSi, ma – per dirla alla parmigiana – una persona, e specialmente una giovane donna, che per ogni cosa fa degli squaSi. Illuminante a questo proposito mi sembra un luogo dell’aretino Francesco Redi (ante 1698) dove si legge di “Donnicciuole…le quali come troppo casose, schive e guardinghe erano solite forse di fare grand’atti e gran lezzi”, vd. GDLI.