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Pierino Prati, la “peste” del gol

Giuseppe Milano

Le biografie quando sono scritte con il cuore hanno decisamente un sapore diverso, più intenso, più vivo. È così anche Pierino Prati. Eri Pierino la Peste , il libro sulla vita del grande attaccante che segnò in modo indelebile la storia del calcio italiano fra gli anni Sessanta e Settanta. C’è cuore, tanto cuore in queste 270 pagine, perché a raccontarci di lui sono il figlio Cristiano e il giornalista sportivo parmigiano Remo Gandolfi. Quest’ultimo è al suo ottavo libro sul football, ma questo, dice, è davvero speciale. E spiega lui il perché: «Da piccolo io non tifavo per una squadra di calcio, io tifavo per Pierino Prati, lo seguivo in ogni club in cui militava». Remo così è stato milanista, poi romanista e fiorentino perché «se c’era lui, la sua maglia era la più bella del mondo». Impossibile dargli torto.

Pierino Prati non è stato un bomber come gli altri. Aveva avversari del calibro di Bonisenga e Riva eppure lui era «Pierino la Peste», l’unico attaccante italiano capace di segnare tre reti in una finale di Champions League (nientemeno che al Bernabeu) ma anche di fingere, a dodici anni, durante il provino per le giovanili del Milan, «di essere pressato dall’Inter per andare con loro» con i dirigenti rossoneri che «invece di scoppiare a ridere decisero di offrirmi una possibilità».

Nel libro le parole di Pierino Prati, scomparso prematuramente nel maggio del 2020, sono sapientemente riportate dal figlio Cristiano che ha scelto di essere accompagnato da Remo Gandolfi grazie all’amicizia nata dopo un altro libro, Questo è il nostro calcio , nel quale un capitolo era proprio dedicato a Prati. Così Cristiano e Remo hanno parlato di Pierino con Gigi Riva (autore della postfazione) e con Walter Sabatini (a lui la prefazione), ma anche con altri colossi del calcio come Jose Altafini (il modello a cui si ispirava Prati), Lamberto «Highlander» Boranga, Antonio Cabrini, Giancarlo Antognoni, Dino Zoff, Bruno Pizzul e tanti, tanti altri.

Per tutti Pierino era un campione sopraffino ma anche, riassume Boranga, «educato, gentile, tranquillo. Era impossibile non ammirarlo e una volta conosciuto non volergli bene. A volte pensavo che forse queste sue caratteristiche fossero quasi un limite in un mondo dove “vendersi” bene contava già parecchio».

Qualità che Prati aveva imparato, forse, sul suo primo campo di allenamento: un fienile poco distante dalla sua casa di Sant’Eusebio, frazione di Cinisello Balsamo. «Le rovesciate, i colpi di testa in tuffo, le sforbiciate nei fienili si sono rivelate determinanti – racconta Prati –. I tanti gol che ho segnato in carriera in acrobazia vengono da lì». Da qui la sua grande caratteristica sui campi italiani e mondiali: andare a colpire di testa la palla «anche quando tutti gli altri ci andavano con il piede».

Questo, al di là della battuta (ma vera) sull’Inter, deve avere colpito i dirigenti del Milan che, a soli dodici anni, non solo gli fanno un contratto ma lo buttano già nella mischia dopo solo una settimana di allenamenti. Lo sceglie Nils Liedholm, responsabile allora del settore giovanile rossonero, per il match che a San Siro i ragazzini del Milan devono giocare con i pari età della Juventus. Pierino non sbaglia, anzi fa addirittura sei reti.

Dopo aver fatto tutte le trafile nelle giovanili, viene ceduto in prestito, «a farsi le ossa», prima alla Salernitana, dove il 9 gennaio del 1966 subisce il primo grave infortunio della carriera con la frattura di tibia e perone, e poi al Savona, club dove tornerà a giocare anche a fine carriera.

A ventuno anni, nel 1967, è il momento di fare il salto di qualità. Il Milan non ha più bisogno di fargli fare esperienza e con Nereo Rocco diventa una colonna della squadra, il perno attorno a cui ruota l’attacco.

Lui vince subito il titolo di capocannoniere di serie A con 15 reti, viene convocato in nazionale da Valcareggi e trascina la squadra alla vittoria in campionato e in Coppa delle Coppe. Nei due anni seguenti la consacrazione definitiva. La Coppa Intercontinentale e prima, quella magica finale di Coppa Campioni contro l’Ajax di Cruyff a Madrid con tre reti e un palo. «A ventidue anni pensi che quello sarà solo l’inizio, che di partite di gol e di gioie così ne arriveranno tante altre… e finisci per viverla con superficialità – diceva Pierino -. Poi, più passa il tempo e più inizi ad assaporarla veramente per quella che è stata: una serata magica e irripetibile».

Al Milan di gioie ne vivrà tante altre. In rossonero ci resta sino al 1973, conquistando, nel frattempo, un campionato europeo con la nazionale ed un secondo posto ai Mondiali del 1970, anche se rimarrà sempre in panchina. Prati, racconta, aveva voglia di dimostrare in azzurro il suo valore, ma l’ultima amichevole in ritiro in Messico, «la iniziai correndo come un pazzo, lanciandomi su ogni pallone e pressando come un ossesso i difensori avversari. Non avevo però considerato un aspetto fondamentale: l’altitudine. Eravamo abbondantemente sopra i duemila metri e io, dopo un quarto d’ora, ero completamente distrutto. Senza fiato e senza lucidità ne combinai di tutti i colori». Risultato: al debutto con la Svezia Valcareggi gli preferì Boninsegna e non cambio più idea fino alla finale.

Nel Milan intanto vince due coppe Italia e un’altra Coppa delle Coppe, ma arriva anche un altro gravissimo infortunio. Il 16 gennaio del 1972 a San Siro c’è l’Atalanta: «Parte un traversone dalla destra di Bigon e Pierino va a saltare con il portiere avversario Rigamonti proteso in uscita». Prati ha la peggio: il suo ginocchio destra fa crac. Resterà fuori per cinquanta giorni, a cui seguirà una dolorosa pubalgia.

Finisce quindi la sua avventura nel Milan, «delusione durissima da assorbire», ma inizia quella con la Roma con una «voglia di rivincita che mi bruciava dentro» e dove Prati viene accolto «come un re». L’inizio è difficile, con i compagni e con la piazza, poi sboccia l’amore. L’ultima stagione fra i grandi del calcio italiano la vive a Firenze dove, racconta, «tutto ciò che poteva andare storto ci andò. L’allenatore che mi aveva voluto, Carlo Mazzone, venne licenziato poche settimane dopo il mio arrivo», al suo posto «Chiappella e non mi ci volle molto per capire che con lui di spazio ne avrei avuto pochissimo». E lasciare Firenze dopo solo un anno fu un colpo durissimo per tutta la famiglia Prati. «All’epoca avevo compiuto trentadue anni ma sapevo bene che dopo le ultime due sofferte stagioni non ci sarebbe stata la fila per mio cartellino», in più «avevo voglia di tornare a casa, ad Arosio, in provincia di Como».

Alla fine vinse il cuore e Prati firma «due anni di contratto con il Savona», da dove, «in due ore e mezza potevamo tornare a casa. Era la soluzione che andava bene a tutti, la mia famiglia in primis». Tra i semiprofessionisti l'attaccante ritrova l'antica vena realizzativa e si regala anche, fra un campionato e l’altro, una breve parentesi negli Stati Uniti coi Rochester Lancers, chiudendo con il calcio giocato nel 1981. la Poi la carriera di allenatore, il suo ruolo come talent scout nel Milan e la sua morte, prematura, a soli 73 anni. Se ne andava così un grande campione e un grande uomo. Bene hanno fatto il figlio Cristiano e Remo Gandolfi a ricordarci in questo libro chi era davvero, chi era veramente il grandissimo «Pierino la Peste».

Giuseppe Milano