Il personaggio

Vincenzo Pincolini, dall’atletica al calcio: una carriera da fuoriclasse

Claudio Rinaldi

In giugno, dando l’addio alle nazionali giovanili, ha chiuso una carriera durata quasi mezzo secolo e costellata di trionfi indimenticabili. Ma alzi la mano chi pensa che Vincenzo Pincolini, «Pinco» per un esercito di amici e “tifosi” (in primis i suoi giocatori), si rassegni a fare il pensionato. Oppure chi crede alla sua carta d’identità: dice che in luglio saranno settanta, ma basta vederlo arrampicarsi sui monti dell’Appennino per capire cosa si intende per età biologica. E non parliamo della passione per lo sport, dell’entusiasmo che mette nelle sue mille attività, dalle lezioni all’università a Giocampus: sono quelli di un ragazzino alle prime armi. Abbiamo ripercorso con lui la carriera straordinaria di un guru che ha rivoluzionato la preparazione atletica nel calcio. Ma che è rimasto l’adorabile «Pinco» di sempre.

Partiamo dagli albori. Dal ragazzo che adorava il basket ma che finì per diventare ostacolista.

«Giocavo play nella Fulgor, ma ero troppo basso per la pallacanestro. Un giorno, avevo 14-15 anni, il professor Pratizzoli mi prende sottobraccio e mi dice “Vieni con me, andiamo a fare atletica”. Il primo colpo di fortuna dei tanti della mia carriera».

Aver conosciuto Pratizzoli?

«Certo. Personaggio straordinario, come non ce ne sono più. Veniva dalla marcia, ha allenato in tutti gli sport: calcio, pugilato, basket, soprattutto atletica leggera. A Fidenza ha seminato molto e raccolto tantissimo. Ai miei tempi c’era gente come Rastelli, discobolo, e Giordano Ferrari, che era alto 1,78 e saltava 2 metri e 20».

Pratizzoli l’ha battezzata subito come ostacolista?

«Sì. Ero molto tecnico e molto resistente, ma troppo basso, per competere a alti livelli. Per la resistenza, Lucio Gigliotti mi avrebbe fatto correre gli 800 metri o i 1500, ma invece è andata bene così. C’erano tanti mezzofondisti, non sarei mai arrivato in nazionale. Se ci penso adesso, mi sento un miracolato: ho iniziato a correre i 400 ostacoli dopo gente come Morale, che aveva fatto il record del mondo, e Frinolli. Dopo quei due giganti, c’è stato un buco di qualche anno: io mi ci sono infilato, con prestazioni discrete a livello nazionale».

La vittoria più bella?

«Un campionato italiano juniores. Sei presenze in nazionale, una delle quali in nazionale A. Un sogno, per me: dove volevo andare, con il mio fisico? Più di così, con il mio personale di 51”2, non avrei potuto ottenere».

E intanto frequentava l’Isef.

«Alla Cattolica di Milano, anche se poi mi sono diplomato a Bologna perché facevo il militare nei carabinieri».

La passione per il mestiere di preparatore atletico è stata molto precoce.

«Altroché. Merito soprattutto dell’atletica. Merito di Pratizzoli, che mi ha fatto conoscere grandissimi allenatori quando io ero un ragazzino. Alessandro Calvesi, per esempio: un mostro sacro. Una delle grandi doti di Pratizzoli era affidare i ragazzi più bravi ai migliori allenatori specialisti che c’erano in giro».

Con Calvesi com’è andata?

«Grande personaggio. Era il mio prof all’Isef, poi andavo tutti i giovedì a Milano, per allenarmi con lui all’Arena. Anni dopo gli ho dedicato il mio libro sulla corsa a ostacoli, che ho scritto grazie a Enrico Arcelli e che mi ha pubblicato Sperling&Kupfer. Quanti bei ricordi. Gli allenamenti, ma anche tutto il resto: l’“Espresso” allora usciva al giovedì a Milano e il venerdì nel resto d’Italia. E io me lo divoravo in treno, tornando a Fidenza. E poi il “Guerin Sportivo” di Brera: lo leggevo dalla prima all’ultima riga».

Il vecchio pallino per il giornalismo.

«Eh già. Scrivevo per la “Gazzetta”, ne ero orgoglioso. Poi ho scritto per “Atletica leggera”, sono diventato amico di Dante e Gianni Merlo. L’ho messo anche nel curriculum, quando mi hanno chiamato a insegnare a Tor Vergata».

Ed è diventato allenatore prima ancora di diplomarsi.

«Sì. Ho smesso di correre quando un mio allievo, Riccardo Trevisan, ha cominciato ad andare più veloce di me. E poi mi ha convinto Carlo Vittori, altro gigante. Altro impagabile colpo di fortuna, averlo incontrato».

Com’è andata?

«Quando ero in ritiro con la nazionale, dopo gli allenamenti andavo sempre a spiare gli altri atleti. Vedere Vittori che allenava Mennea per me era come per un bambino entrare in un negozio di giocattoli. Impressionante».

Cosa la impressionava?

«Ha idea degli allenamenti che faceva Mennea? Lui era un fenomeno, ma Vittori ha avuto grandissimi meriti nei suoi successi. Una volta il Prof ha illustrato a un convegno mondiale il programma di allenamenti. Un celebre fisiologo ha strabuzzato gli occhi: “Impossibile – ha detto –. Un atleta morirebbe, a fare queste cose”. E invece era tutto vero. Mennea si allenava tre volte di più dei suoi rivali».

Cosa le ha detto Vittori per convincerla a dedicarsi solo a preparare gli altri?

«Ho gareggiato in una sfida Italia-Svizzera-Jugoslavia contro un atleta a cui mancava un braccio. “Se perdi con quello, smetti”. Ho perso, ho smesso: e mi ha nominato responsabile delle nazionali femminili giovanili. Non avevo neanche il patentino. “Non ci pensare”, mi diceva lui».

Segno di grande fiducia. E intanto, ottenuto il diploma Isef, ha cominciato a insegnare nelle scuole.

«Ho girato 25 istituti in nove anni e mezzo, insegnare mi è sempre piaciuto moltissimo. Un anno mi hanno assegnato Borgotaro, Tarsogno e Albareto, a cento chilometri da casa e mille metri d’altezza. Ma non mi è mai pesato. Mi divertivo un sacco, portavo i ragazzi alle gare, organizzavo le settimane bianche. Non c’era la burocrazia di adesso, si partiva con un bidello e via. Altri tempi».

E poi, finalmente, il calcio.

«Ho cominciato prima ancora di diplomarmi, a Fidenza, con Battistini allenatore e con il presidente Calza, gran bella persona. Primo anno con gli Allievi, poi la prima squadra, in serie D. E Luciano Castaldini che scriveva sulla “Gazzetta” di quanto correvano i nostri giocatori, di come giocavano bene».

Fino a quando è arrivata la chiamata del Parma.

«Sì, nell’82: da Sogliano, che era appena arrivato. Ero un raccomandato».

Da chi?

«Da Enrico Arcelli, un gigante della medicina dello sport, persona splendida. Sogliano voleva lui, ma era impegnato su mille fronti, stava a Varese. “Se volete uno che lavora come lavorerei io se prendeste me, chiamate il Pinco”. Gliene sono eternamente grato».

A quei tempi i preparatori atletici non andavano molto di moda.

«Un mestiere che non esisteva proprio: quando sono arrivato in A, con Sacchi, al Milan, c’erano non più di quattro-cinque squadre con il preparatore: Sassi al Varese con Fascetti, Carminati a Reggio Calabria con Scala. Non eravamo nemmeno riconosciuti dalla Figc. Grazie a Galliani, io sono stato il primo ad avere un contratto federale».

I calciatori si allenavano poco?

«Poco e male. C’era bisogno, soprattutto, di correre di più. Gli olandesi strabiliavano il mondo, in quegli anni. E io ho cominciato a impostare una preparazione, sfruttando l’esperienza nell’atletica. A Tizzano correvamo in una pista da autocross. Ho fatto fare delle cose… I calciatori di oggi chiamerebbero il Telefono Azzurro».

E lei sempre in mezzo al gruppo.

«Sì, questo mi ha molto aiutato a creare empatia, a rinsaldare il rapporto con i calciatori. E poi ero più allenato di loro. Tanti, piuttosto che restare indietro, avrebbero sputato sangue: Donadoni, per esempio. Boban, invece, faticava. Grandissimo campione, il croato: se non avesse avuto i problemi di schiena sarebbe stato un fenomeno. Sa quante volte Donadoni e Filippo Galli mi hanno detto “Dai, Pinco, facciamolo incazzare”? Acceleravamo in salita, e Boban cominciava a imprecare. Si sudava e ci si divertiva. Noi, almeno».

C’è un calciatore che ha allenato che avrebbe potuto fare grandi risultati nell’atletica leggera?

«Gullit. Un fenomeno. Sarebbe stato un Juantorena due: non è un caso che fosse di origini caraibiche. E poi Gigi Lentini, un caraibico bianco».

Qual è stato il segreto del “metodo Pincolini”?

«Personalizzare il lavoro. Non è stato facile convincere certi allenatori: per loro il gruppo era sacro, guai a fare differenze. E invece un attaccante di 90 chili di muscoli devi allenarlo per lo scatto sui venti metri, non ha senso fargli fare i 5.000 “tirati”. Poi ci sono grandi differenze nei tempi di recupero: Pippo Inzaghi, per esempio, in campo era un generoso, correva molto. E dopo una gara impegnativa aveva bisogno di due-tre giorni di allenamenti blandi: altrimenti avrebbe perso la freschezza atletica, che era la sua forza».

Tanta corsa e anche tanta palestra.

«Come no. Anche in questo sono stato tra i pionieri. Nerio Alessandri, il patron della Technogym, l’ho conosciuto quando era agli inizi, costruiva gli attrezzi in un garage e andava lui in giro a montarli. A Milanello abbiamo creato una palestra da favola. Fondamentale allenare la forza, oltre alla resistenza».

E i risultati in campo si vedevano.

«Eccome. Già a Fidenza: era una squadra che ha sempre fatto fatica in serie D, a un certo punto ci siamo ritrovati terzi in classifica. Lo stesso è successo al Parma e poi al Milan».

Che ricordi ha di quel Parma?

«Tanti, bellissimi. Da Ernesto Ceresini, presidente straordinario, a Ricky Sogliano, bravissimo diesse. E un grande Parma: c’erano Stefano Pioli e Murelli, Mariani e Pin, Salsano e Barbuti. E Berti, mio allievo alle medie, a Salso. Nel primo anno di Perani indimenticabile il 4-1 a Vicenza. Che goduria. Poi l’arrivo di Sacchi, due stagioni indimenticabili, con la promozione in B e la A sfiorata. Quella maledetta sconfitta a Pescara all’ultima giornata».

Il ricordo più bello?

«Lo spareggio del 2005, quando sono tornato dopo tanti anni al Milan. La vittoria di Bologna per me vale uno scudetto».

Poi gli anni del Milan e la consacrazione definitiva: con Sacchi prima e con Capello poi.

«Con Arrigo ci sentivamo dei pionieri. Ci attaccavano tutti, in primis il grande Gianni Brera: dicevano che saremmo scoppiati, che i giocatori avrebbero finito prestissimo la carriera. E invece Paolo Maldini ha giocato una finale di Champions a 39 anni, Costacurta una partita di Coppa Italia a 42. Filippo Galli e Donadoni hanno finito la carriera a 38-39 anni. Avevamo ragione noi. Abbiamo fatto progressi enormi con l’esperienza accumulata sul campo e con le conoscenze mediche, molto progredite, anche nel campo dell’alimentazione. Allora sono state intuizioni, oggi sono cose conclamate. Prenda Gianfranco Beltrami: è l’essenza della medicina dello sport, della medicina-stile di vita, basta leggere i suoi articoli sulla “nostra” Gazzetta. Adesso in tutti gli sport gli atleti mediamente “durano” molto più a lungo, proprio grazie al connubio preparazione-medicina».

Ha lavorato con grandi allenatori. Una definizione per ognuno: partendo da Sacchi, ovviamente.

«Il realista visionario: il titolo del suo ultimo libro è la sintesi perfetta. Pioniere assoluto, è arrivato a conquistare l’utopia di un calcio diverso».

Capello?

«Il più bravo di tutti a fare la sintesi, a leggere le partite. È così anche da commentatore televisivo. Imbattibile».

Tabarez?

«Un maestro. Piacevolissimo stare con lui a parlare di calcio, passavamo notti intere a chiacchierare».

Ancelotti?

«Ha detto benissimo il presidente del Real: “Ti ho mandato via perché eri troppo amico dei giocatori, ti richiamo per lo stesso motivo”. Lui è il normalizzatore. Il numero uno nel non farsi prendere dallo stress. Ed è uno straordinario vincente».

Cesare Maldini?

«Il più bravo a fare gruppo. Per forza, era della scuola di Rocco. Prima di tutto si fa gruppo, poi si parla di tattica. Gli ho voluto un gran bene. Ecco, tutti gli allenatori moderni dovrebbero avere qualcosa di Cesare Maldini».

Lippi?

«A me è sempre piaciuto molto perché lui stesso ha detto che c’è un Lippi prima di Sacchi e uno dopo Sacchi. Non è mai stato completamente sacchiano, però dopo il grande Milan ha cambiato il modo di intendere il calcio. È un eccellente allenatore, un po’ come Carletto, anche se molto più permaloso: però si fa amare dai suoi giocatori».

Jurij Sëmin?

«Personaggio importantissimo in Russia e in Ucraina, ha allenato quasi trent’anni la Lokomotiv Mosca, l’ultimo scudetto l’ha vinto contro Mancini. Al di là del calcio, persona dolcissima, che adora l’Italia. Abbiamo avuto un rapporto splendido, sia sul lavoro che lontano dal campo. Anche perché adorava il vino italiano, gli portavo Sassicaia e Masseto, era l’uomo più felice del mondo»

Che presidente è stato Berlusconi?

«Affascinante. Io facevo arrabbiare i miei amici perché mi sono sempre dichiarato un berlusconiano di centrosinistra. Certo, ha fatto anche lui degli errori, ma chi non li ha fatti? Non si può ricordare solo per il bunga-bunga: per noi era uno stimolo continuo, quando parlava restavamo a bocca aperta, dava delle motivazioni incredibili».

Com’è la storia del suo primo stipendio al Milan?

«Incredibile. Mi aveva convocato Ariedo Braida, io lungo il viaggio continuavo a ripetermi: e adesso quanto chiedo? Non volevo esagerare, ma neanche stare troppo basso. Sessanta milioni? Settanta? O sarà troppo? Non mi sapevo decidere».

Alla fine cos’ha deciso?

«Braida mi ha fatto un gran discorso di benvenuto. E quando timidamente gli ho detto “per il compenso avevo pensato…”, si è messo a urlare: “Non cominciamo con le richieste! La cifra è già scritta, non si cambia!”. Aveva scritto 110. Bel colpo, ho pensato. Poi, con gli anni, ho capito una cosa: tu devi impegnarti per fare bene il tuo lavoro, poi i soldi arrivano».

La più grande soddisfazione della carriera?

«Sono due: il primo scudetto e la prima Coppa dei Campioni».

La più grande delusione?

«Le due Champions perse, con il Marsiglia e con l’Ajax. Una cosa da stare male».

E i Mondiali negli Usa persi ai rigori?

«Una cosa diversa. Ero molto dispiaciuto, certo: ma ero contento di quello che avevamo fatto. Venendo dall’atletica, per me eravamo arrivati secondi, tra l’altro dopo essere partiti zoppi. Nel calcio italiano manca ancora questa cultura. In Sudamerica chi perde la finale dei Mondiali è subcampeón del mundo, da noi sei nessuno: ai massimi livelli come nei settori giovanili. C’è una bella differenza. Il difetto nostro è questo».

Cosa fare?

«I ragazzi dovrebbero fare le scuole di avviamento allo sport, provare tante discipline. La cultura di base deve essere quella di Giocampus: fare sport divertendosi. Seriamente, ma divertendosi. Se a un certo punto ti accorgi di essere bravo in una disciplina, ti dedichi a quella e magari diventi un campione».

Che sportivo è oggi?

«Malato di ciclismo. Sarei malato anche di corsa, ma non posso più, dopo che ho avuto una brutta infiammazione al ginocchio. E mi brucia molto non essere mai riuscito a correre una maratona. Ho fatto diverse mezze maratone, ma mai i fatidici 42 chilometri. Probabilmente avrei dovuto allenarmi meno: invece caricavo troppo durante la preparazione degli ultimi due mesi e puntualmente mi infortunavo».

È un po’ come il calzolaio che va con le scarpe rotte.

«Vero. Ho sempre corso, ma venendo dalla velocità non avevo le due-tre ore nelle gambe. E mi allenavo troppo».

Troppo tardi, ormai?

«Sì, con le articolazioni di un settantenne secondo me è bene fare nuoto e ciclismo. Attenzione, però: faccio 15mila chilometri all’anno in bici, mica pochi. Ho tre bici e le uso tutte. La bici mi piace anche perché è un bel modo per stare insieme, esco anche con mia moglie e mia figlia».

Strada, mountain bike? Bassa o Appennino?

«Per me il ciclismo è salita, punto e a capo».