Tutta Parma

Quelle scope di saggina fatte nelle stalle

Lorenzo Sartorio

Da pochi giorni è trascorsa l’Epifania ed il mito della Befana, specie per i più piccoli, si è concretizzato con i doni che la vecchia mette dentro la calza come vuole l’antica usanza che, nonostante l’informatizzazione anche dei bambini, è dura a morire. La befana, secondo l’iconografia classica, è rappresentata da una brutta vecchiaccia dal naso adunco, gonnellone ampio e scuro, grembiule con le tasche tappezzato di toppe, uno spesso scialle nero, un fazzolettone o un cappellaccio in testa ed un paio di ciabatte consunte a cavallo di una scopa dal manico rigorosamente di nocciolo, legno magico, secondo la tradizione, in grado di poter volare. Per di più la Befana soffre di alitosi in quanto, l’usanza parmigiana, vuole che abbia «al fiè c’ al spussa d’aij».

Comunque, il simbolo più noto che connota la befana è la scopa. Nelle sere invernali, quando la gente andava in veglia nelle stalle per stare al caldo evitando di consumare la legna ed utilizzando il calore delle bestie, i vecchi, ai quali non interessavano le favole del «folaio» o la partita a briscola, si appartavano sotto la «lùmma a òli frùsst» e, lì , impagliavano vecchie seggiole sgangherate, fiaschi, oppure facevano le scope che, per le «rezdore», erano una vera manna. Già, la cara vecchia scopa che sopravvive ancora nonostante l’incalzare del progresso e della robotizzazione degli attrezzi per fare le pulizie domestiche. Sebbene esistano tipi di scope realizzate con sistemi moderni, in ogni casa, una o due scope tradizionali si trovano sempre: nel ripostiglio, in cantina, nel garage, in giardino. Insomma, è un attrezzo che, nonostante la modernizzazione, resiste. Un tempo, nella nostra città, l’attuale Piazzale Santa Apollonia era il «Piazzale delle Scope» dove si davano appuntamento, in autunno, quegli artigiani che facevano le scope dopo il raccolto di saggina e melica. Oggi, in qualsiasi negozio di casalinghi ma, soprattutto, nei supermercati, si possono trovare tantissimi tipi di scope di qualsiasi formato, colore, dimensione e materiale. Ma, una volta, non era così, quindi il «fai da te» (per le scope come per tanti altri oggetti) era indispensabile e provvidenziale proprio per motivi di sopravvivenza e di.. portafoglio. La maggior parte delle scope era di saggina: per i dotti «sorghum vulgare», per il popolo - tout court - «mèllga da scòvvi».

Il sorgo si seminava in primavera con la luna buona della metà di marzo, mentre la raccolta si effettuava, tra settembre ed ottobre, quando il seme era maturo e le pannocchie presentavano un colore giallognolo chiaro. Quindi i culmi raccolti venivano legati con dello spago e poi appesi ai ganci sotto il «pòrtogh» per favorirne l’essiccazione dei semi. Una volta essiccati i semi, si eseguiva l’operazione di separazione degli stessi dalle pannocchie che prevedeva una ben precisa e antica liturgia. Quando la melica era pronta la si metteva a dimora nella stalla in attesa che venisse il momento buono per confezionare le scope.

E, a questo punto, entrava in gioco, non solo l’abilità dello «scopaio», ma la saggezza della nostra gente dei campi e quegli antichi saperi che i contadini si tramandavano di padre in figlio. Di scope se ne facevano tante, sempre con gli stessi materiali, ma di diverse dimensioni a seconda dell’uso. E allora c’era la «scòvva da tlarén’ni» (da ragnatele, con il manico lungo per raggiungere quegli angoli tra un trave di legno e l’altro dove «giocavano» i ragni), la «scòvva da stala» (ramazza), la «scòvva ‘d sangonéla» che si usava prevalentemente nell’aia e nel pollaio, la «scòvva da rudén», quelle che utilizzavano una volta «i spasén» (ora «operatori ecologici») mentre la «scòvva da ca'» era quella migliore utilizzata in casa, mentre per il «granär» (solaio) e la cantina si usava una specie di scopa fatta con i rami di scarto tenuti insieme da fil di ferro. Gli scopini, invece, erano il «mansarén» o la «mansarén’na», utilizzati per togliere la farina dal tavolo quando si faceva la «fojäda» (sfoglia) o per tenere pulito il pavimento dalla cenere accanto al camino, mentre un altro tipo di scopino era la «spasètta» che veniva usata per le pulizia della «turca».

Il servizio igienico, nelle case di città era, per lo più, sistemato sulle scale ed era in comune. In campagna le cose erano un po’ diverse, in quanto, d’estate, la gente si arrangiava come poteva in mezzo ai campi, mentre in inverno il bagno, ma sarebbe meglio chiamarlo gabinetto (o meglio ancora «latrina»), si trovava in fondo al portico, sul retro della casa, di fianco al pollaio.

Era un bugigattolo stretto ed angusto, illuminato da una finestrella che dava sui campi alla quale, il più delle volte, mancavano pure i vetri. La scopa fu pure, in passato, ed anche nella nostra città, uno strumento di tortura tant’è che, per taluni reati, si dava la «pena della scopa» «där la scovadùra». «Il punito, di solito una donna, veniva denudato e frustato con scope di saggina per le strade il giorno di mercato da due aguzzini scortati da un paio di guardie. La pena era ancora in vigore alla metà del XVII° secolo»: lo svela l’indimenticato storico Guglielmo Capacchi nel suo «Dizionario Italiano Parmigiano tomo II° Artegrafica Silva).

La scopa fu pure, negli anni cinquanta - sessanta, un simbolo singolare e boccaccesco per i camionisti padani, parmigiani compresi, i quali, per esorcizzare le insidie e le fatiche del loro mestiere, se in un’ osteria avevano trovato una buona accoglienza, in tutti sensi, da parte della locandiera, issavano, sul cassone del camion, una vecchia scopa. Un’indicazione per il collega che sopraggiungeva dal lato opposto della strada il quale, nella prima osteria che avrebbe incontrato, si sarebbe trovato a proprio agio. I «baracchini radio cb», a bordo dei camion, non esistevano ancora, quindi, ci si arrangiava ugualmente con segnali più autarchici e spartani.

Un'altra «scopa parmigiana», unica nel suo genere perché consunta fino al manico, fu quella usata dal «Coco Pagàn», forzuto «ciapa-ciapa» il quale, a bordo del suo trabiccolo a pedali, scortato dall’inseparabile moglie Mafalda, trasportava le lapidi mortuarie in marmo da piazzale San Lorenzo ( dove era ubicato il marmorino De Giuli) alla Villetta. Era uso parcheggiare il suo trabiccolo sul marciapiede del palazzo ubicato sullo Stradone dinanzi al Petitot dove viveva in uno scantinato. E, prima di entrare in casa, non mancava mai di spazzare la polvere di marmo che si era depositata sul suo trabiccolo con quella povera «scòvva pläda». La scopa, oltre assolvere ad umili ma utilissime funzioni domestiche, un tempo, era considerata anche una sorta di amuleto, di potente antidoto contro malocchio, streghe e folletti. Infatti, nelle nostre campagne, era usanza appoggiare una scopa dietro la porta di casa a patto che il manico toccasse terra. In questo modo si impediva l’ingresso al folletto.

Mentre invece, per impedire alle streghe di entrare in casa, si metteva una scopa, in questo caso, fuori dalla porta d’ingresso però il manico doveva toccare terra.

La «stria» (strega), attratta dalla scopa, contava uno ad uno i rametti di saggina finchè giungeva l’alba. Così distratta, non faceva i suoi malefici. Ed intanto trascorrevano i giorni, le sere e le notti durante le quali una semplice e umile scopa serviva a tranquillizzare donne, uomini, vecchi e bambini. Una sorta di «allarme ante litteram» inventato da gente che poteva permettersi il lusso di andare a letto lasciando la porta aperta. Altri tempi!

Lorenzo Sartorio