Intervista

Alessandro D'Avenia: «L'Odissea ci insegna l'alfabeto indispensabile della vita»

Francesco Mannoni

Parte da Parma, una nuova iniziativa promossa dal Salone Internazionale del Libro di Torino in collaborazione con le istituzioni cittadine e il sostegno della Fondazione Cariparma: «Mi prendo il mondo».

Da giovedì a domenica 28 gennaio, ci saranno lezioni tenute da grandi scrittori e scrittrici «in dialogo con i giovani soprattutto con argomenti che riguardano la contemporaneità che li rende protagonisti. Saranno occasioni di confronto per le nuove generazioni, momenti di condivisione di storie ed esperienze».

Abbiamo intervistato lo scrittore Alessandro D’Avenia, che da poco ha pubblicato un grande libro sull’Odissea «Resisti, cuore» (Mondadori, 416 pagine, 20 euro) che per l’occasione ha preparato una importante “lectio” intitolata: «C’ero una volta: la sfida di essere vivi e non solo viventi». Il suo intervento è previsto sabato alle ore 21, al Centro Congressi Paganini.

D’Avenia, ci può dare qualche anticipazione della sua “lectio”?

«C’è una cosa che amiamo molto ed è l’incipit di tutte le favole che risuona dentro di noi, sia che siamo bambini o adulti: e ancora ci paralizziamo quando sentiamo “c’era una volta” perché l’attacco è fatto di tre ingredienti fondamentali dell’esistenza umana e ogni storia che abbia un minimo di verità, è l’incontro dell’uomo con il suo destino. Il c’era una volta (per la “lectio” “c’ero”) indica l’esserci, il luogo, e il tempo in cui sta per apparire sulla scena qualcuno che è imperfetto. È il tempo che gli antichi utilizzavano per citare qualcosa che aveva dei difetti, di imperfetto: ma più semplicemente indicava il tempo di un verbo che richiede un compimento che loro consideravano perfetto».

Di quale tempo si tratta?

«È il tempo finale delle storie, del “E vissero felici e contenti”. Noi ascoltiamo le storie nella forma delle favole, film o romanzi e qualsiasi storia comincia implicitamente con quel “c'era una volta”; di conseguenza ci aspettiamo che appaia sulla scena chi in quel momento della narrazione deve compiere qualcosa che solo lui può compiere. E la perfezione del “vissero felici e contenti” mi piace pensarla non come ciò che accade dopo la storia, ma come ciò che è accaduto durante la storia, ovvero quell’imperfetto che diventa perfetto. Si realizza una volta sola nella storia dell’universo ed è l’azione stimolante, la perfezione che ciascuno di noi può dare nella sua irripetibilità. La mia testimonianza è personale e racconta la mia vocazione letteraria perché l’esperienza di un singolo sia l’esperienza di tutti».

Che cosa ha significato per lei il racconto dell’Odissea, e in che cosa ognuno di noi somiglia un po’ ad Ulisse?

«Il racconto dell’Odissea è l’esperienza di un libro madre. Nella nostra vita esistono tanti libri padre che ci insegnano tante cose, aprono sentieri nuovi nella nostra esistenza, ma è il libro madre quello che ci ha messo in cammino. È un’esperienza radicale. In qualche maniera ciascuno di noi ha un libro madre che insegna l’alfabeto indispensabile per narrare la nostra vita. È il libro che leggiamo e rileggiamo, quello che tutte le volte che ci si perde ci fa ritrovare il cammino, ci rimette nella vita ed agisce come una profezia. Noi sentiamo che ci appartiene perché c’è qualcosa nel nostro destino che non finirà mai di compiersi, ma nel libro madre è già contenuto, compiuto. Il libro madre, a differenza dei libri padre che sono tanti, è uno solo, quello della mia ossessione odisseica: svincolare Ulisse dall’idea che si tratta del Dna narrativo dell’Occidente e restituirgli invece un’ampiezza più grande, perché è il Dna narrativo dell’Homo Sapiens, e riguarda tutti, non solo una porzione delle culture che abitano questo mondo».

Ma qual è la più grande metafora dell’Odissea?

«Quella del viaggio, del ritorno, e il titolo, Odissea, che noi utilizziamo come sinonimo di vita, vuol dire che in quel poema c’è un’esperienza universale. L’Odissea, per la metà riguarda la navigazione di Ulisse nel tentativo di ritornare a Itaca; l’altra metà di cui parliamo poco (ma sono altri 12 capitoli), raccontano il momento in cui Ulisse dopo essere sbarcato a Itaca, deve farsi riconoscere dai suoi cari e riconquistare l’isola. Il viaggio di ritorno è fatto per metà di crisi, del nostro continuo perderci nel mare della vita, un mare di guai e di gioie che tutti dobbiamo affrontare nel tentativo di trovare la rotta verso casa; l’altra metà è la speranza che il viaggio tiene viva in noi. Arrivati a Itaca spogliati di tutto - Ulisse è un mendicante irriconoscibile – il fatto di riavere l’identità più profonda partendo dal grado zero, ricostruisce le relazioni fondamentali».

E questo consente la riaffermazione di Ulisse e dei suoi poteri?

«Sì, ma Ulisse non è tale perché riconquista Itaca con la forza, ma perché è riconosciuto da cinque interlocutori fondamentale: il cane, il figlio, i servi più fedeli, la moglie e il padre. L’Odissea ci racconta l’esperienza di una vita che vuole salvarsi, che qualche cosa di noi non venga perduto, o cancellato dalla morte. Questo desiderio è vivacizzato per metà dal continuo resistere nel mare di guai e di gioie della vita per trovare Itaca, ma anche una volta trovata l’isola il gioco non è fatto: si devono curare quelle relazioni che ci restituiscono l’identità, quella che ci riscatta dal nostro esserci ridotti a dei mendicanti».

Itaca, più che un sito geografico, è la consistenza stessa dell’anima?

«Io sono convinto che la grande letteratura in particolare i testi della letteratura orale non ci servono tanto a fare elucubrazioni filologiche, ma sono delle vere e proprie iniziazioni alla vita. David Foster Wallace diceva che la letteratura serve a fare il massaggio cardiaco al nostro cuore quando smette di credere in quegli elementi di meraviglia che ci sono nella vita. Le parole della letteratura secondo Flaubert, sono il laminatoio dell’esistenza per trovare a poco a poco le giuste sfaccettature che ci permettono di affinare la vita con le parole giuste, perché la letteratura non è un passa-tempo, ma un salva-tempo. In questo senso sono convinto che l’Odissea è un vero e proprio viaggio di ricezione. Leggere o ascoltare quei versi è un modo di appartenere alla vita. Quando la cultura non aveva ancora i libri, nell’oralità era contenuta tutta la forza della memoria e tutte le istruzioni per costruire un’anima».

Lei e la scuola: con i suoi studenti che tipo di rapporto ha?

«Come punto di riferimento ho Socrate che ha inventato la scuola in Occidente. Quando il più talentoso dei suoi allievi, Alcibiade, si lamenta del fatto che conoscere se stessi – attività al centro della filosofia e della pedagogia di Socrate – è molto difficile, Socrate gli risponde: “Hai ragione Alcibiade, ma se noi non ci conosciamo in profondità come potremmo prenderci cura di noi stessi?”. Io credo che questa frase sia l’atto fondativo di che cos’è la scuola nel mondo Occidentale».

In un mondo in cui Ulisse sembra aver perpetuato la sua indole guerresca, finiranno un giorno tutte le guerre?

«La risposta sta nell’Odissea, ed è no. Nel 24° capitolo Ulisse una volta che ha riavuto la sua identità dall’ultimo che doveva riconoscerlo (il padre) si ritrova ancora una volta ad imbracciare le armi perché vuole sbaragliare tutti i parenti dei proci che vogliono vendicarsi del fatto che ha ucciso un centinaio di loro congiunti un giorno prima. A quel punto deve intervenire Zeus attraverso Athena (nelle spoglie di Mentore amico di Ulisse), che urla: “Basta, dovete smetterla di fare la guerra e propiziare i patti per la pace”. Se ci atteniamo solo alle logiche umane le guerre non avranno mai fine, dobbiamo trovare quel denominatore comune, trascendente che io chiamo Dio, che in qualche maniera possa riportarci ad avere qualcosa in comune senza scannarci tra di noi, e trasformare pregi e difetti che abbiamo per creare socialità. Le relazioni servono a dare all’altro ciò di cui l’altro ha bisogno invece di interpretarle come togliere all’altro ciò di cui noi abbiamo bisogno».