EDITORIALE
La sfida di Salvini: si gioca tutto nelle europee
La gestione dei rapporti di forza, in politica, è determinante. Ancor più, se si fa parte di una coalizione competitiva, nella quale, cioè, c'è la possibilità per i singoli leader di accrescere le proprie fortune e competere per quote di potere sempre più ampie, fino ad arrivare alla presidenza del Consiglio. Il treno per Palazzo Chigi è stato perso da Salvini nel 2019, nonostante (o forse per colpa) del 34% dei voti ottenuto alle europee.
Ma il leader leghista, che alle politiche del 2022 si è ritrovato con una percentuale dimezzata rispetto a quelle del 2018 e con un quarto o poco più dei consensi delle europee '19, ora è a un bivio. O supera quota 10% a giugno, in occasione del rinnovo per l'Europarlamento, o rischia che persino i suoi comincino a pensare di trovarsi un altro "capitano" (Zaia è il principale indiziato per la sostituzione al vertice).
O la va, o la spacca, perché dal 2024 al 2027 la Meloni avrà a che fare solo con elezioni regionali nelle quali l'unione della destra e le divisioni nel centrosinistra largo non faranno troppo male ai candidati governativi uscenti e perché, per il resto, ci saranno solo elezioni comunali (dove varrà lo stesso principio: destra unita, opposizione divisa).
Quindi Salvini non avrà margine di manovra, tantomeno se Fratelli d'Italia alle prossime europee dovesse superare quota 30% e il Carroccio fermarsi all'8% (col rischio di subire il sorpasso persino da una Forza Italia orfana del Cavaliere). Ecco perché è scattata - da inizio legislatura, a dirla tutta - un'offensiva a tutto campo, per erodere voti alla Meloni (finora su questo fronte Salvini ha fallito) scavalcandola a destra e per conquistare tutto l'elettorato che si riconosce sia nei delusi della fiamma missina, sia nella destra più estrema e radicale (quella "rosso-bruna", po' no-vax e tanto filo-russa, tanto per intenderci); cerca perfino di strizzare l'occhio agli agricoltori, dopo averlo fatto con balneari e tassisti (senza contare che il "no" del governo al Mes è opera sua, perché sia il ministro leghista Giorgetti, sia la Meloni, erano tentati dal "sì"). A livello europeo, la Lega sta in Identità e democrazia, cioè nel gruppo più di destra, che comprende un partito quasi filonazista come l'Afd tedesco (che vuole, fra l'altro, l'uscita della Germania dall'Unione europea, tanto per dare un'idea del programma), oltre a xenofobi e destre ultraradicali di mezza Europa (c'è anche la Le Pen, che in questo quadro sembra quasi una moderata).
Il problema di Salvini - oltre al fatto che la delegazione italiana del Carroccio all'Europarlamento non sarà numerosa come nel 2019, ma sarà surclassata da quelle tedesca e francese - è che la sua famiglia europea è sempre relegata ai margini nell'UE: per questo ha chiesto a Tajani (Ppe, popolari europei) e alla Meloni (Conservatori) di dar vita a un'euromaggioranza che corrisponda a quella che governa l'Italia: ma anche lui sa che i numeri non ci sono e non ci saranno, quindi insiste solo per mettere in difficoltà i partner nazionali e cercare di togliere loro i voti degli euroscettici. Così sull'Ucraina: si è rimesso per qualche ora persino insieme al M5s (ricordando i tempi del governo Conte uno giallo-verde) pur di mettere in difficoltà la premier sull'appoggio a Zelensky: anche qui, un po' perché l'amicizia con Putin non è mai stata dimenticata da Salvini, ma molto perché ci sono settori di elettorato che non hanno affatto simpatia per l'Ucraina e nemmeno per la Nato e per gli Usa.
Infine, c'è stato il caso di Ilaria Salis, nel quale - a fronte degli sforzi che la Meloni sta compiendo per cercare di mettere a posto la situazione - la Lega continua ad attaccare la nostra connazionale detenuta in Ungheria. Tutto fa brodo sul piano elettorale, soprattutto quando disperatamente si cerca ogni appiglio, ogni occasione (per esempio, la candidatura del generale Vannacci, che suscita perplessità fra i leghisti) pur di strappare un risultato decente alle prossime europee, per non diventare un vassallo minore della Meloni.