Intervista
Claudio Autelli porta a Parma «L'eterno marito» di Dostoevskij: «Un'accusa verso un certo tipo di padri»
«Siamo ancora in grado di esercitare la cura? Di essere padri, maestri, guide?». Il regista Claudio Autelli esperisce la risposta in scena: raccogliendo la provocazione di Fëdor Dostoevskij ne «L’eterno marito», dirige al Teatro del Cerchio, sabato alle ore 21, la produzione di LAB 121, Trento Spettacoli e Teatro Franco Parenti (dove ha appena debuttato a Milano).
Mix fra teatro e cinema, attingendo al filo d’inquietudine dei labirinti relazionali della San Pietroburgo ottocentesca, sul libero adattamento di Davide Carnevali il romanzo dilaga nell’interpretazione fin autobiografica degli attori Ciro Masella e Francesco Villano.
Claudio Autelli, diplomato in regia alla scuola di teatro «Paolo Grassi» (dove ora è docente) e laureato in Discipline economiche e sociali alla «Bocconi», insieme all’Associazione culturale LAB 121 di Milano, di cui è socio fondatore e direttore artistico, sta creando un progetto artistico indipendente che nasce da una prassi teatrale laboratoriale.
Cosa l’ha attratta de «L’eterno marito»?
«Riscoprire un testo così poco conosciuto di Dostoevskij era una bella scommessa. Siamo di fronte ad un rarissimo Dostoevskij, in cui lo sguardo dell’autore ha un’ironia più accentuata. E’ molto caustico nei confronti dei due protagonisti: questo appare come un’invettiva verso una certa generazione di adulti e di padri».
Ciro Masella e Francesco Villano (vincitore del Premio Ubu 2023 come miglior attore), interpretano lo spettacolo in modo quasi autorale. Com’è nata l’idea di questa chiave registica?
«Era presente in questo piccolo monografico un duello dialettico. Ci sono due livelli nell’adattamento di Davide Carnevali: il piano della narrativa russa e quello dei due attori in scena. Lo spettacolo è nato con loro e su di loro. Questo lavoro parte proprio dal desiderio di sviluppare un percorso con Francesco Villano, con cui la collaborazione è quasi ventennale. Con Ciro Masella, attore che conoscevo bene, già questo primo è un felice incontro. Si è creata amalgama. Interpreti eccezionali, incarnano talmente il loro essere i personaggi che le prove continuavano anche fuori dalla scena».
Il teatro qui si fonde con il cinema, in uno sconfinato intreccio artistico?
«E’ così, questa è la parola fulcro: intreccio. Lo spettacolo è un labirinto in cui le realtà si confondono, i temi dei personaggi diventano quelli degli attori e viceversa. Questo si allarga dal palco alla platea e parla al presente. Il teatro è il luogo di elezione in cui possono compenetrarsi le arti più diverse. L’importante mixarle con dovizia, gradevolezza e senso drammaturgico. Per me il teatro è un grande laboratorio. In scena c’è l’installazione di un salotto borghese nella scatola del teatro a vista: la video camera diviene lo sguardo nei meandri del teatro, come metafora d’identità dei pensieri e del cervello».
Dostoevskij le ha fornito il canovaccio anche per il suo «Demoni», che porta in scena con la riscrittura di Fabrizio Sinisi, un affresco di una generazione di trentenni, in cui le domande diventano: «cosa pensano davvero i giovani, cosa desiderano?».
«Diciamo che, senza averlo pensato a priori, in questo dittico ci sono i due lati della stessa medaglia: nei “Demoni” i figli, ne “L’eterno marito” i padri. Questa forse è proprio una complementarietà. Nei “Demoni” l’atmosfera è molto più cupa, un affresco disilluso su una generazione che oggi si sente inascoltata. Ne “L’eterno marito”, invece, due adulti faticano a prendersi cura dei giovani. Il loro tono ridanciano risulta comunque amaro. E’ molto provocatorio: sembra non esserci spazio per una ricostruzione delle generazioni».
Claudia Olimpia Rossi