Accadde sessant'anni fa

25 febbraio 1964: Liston-Clay, il match che cambiò la storia della boxe

Claudio Colombo

Un ragazzo afroamericano balla e salta al centro del ring, le braccia alzate, la bocca spalancata, gli occhi inondati di gioia. Ha da poco compiuto 22 anni ed ha appena costretto alla resa il campione del mondo dei pesi massimi in carica, Charlie L. Liston detto Sonny, di dieci anni più anziano, terribile picchiatore che avrebbe dovuto vincere con una mano sola. In quel momento nessuno può immaginare che su quel ring è accaduto qualcosa di magico: è nata una stella, di quelle destinate a brillare per molti anni nel firmamento pugilistico. Il suo nome è Cassius Marcellus Clay. Tra poco diventerà Muhammad Ali. Può essere banale sottolinearlo, ma è la pura verità: da quel momento in poi, nella boxe, nulla sarebbe stato come prima.

Era il 25 febbraio 1964, sessant’anni fa. Al Centro Congressi di Miami si erano radunati 8.297 spettatori, non moltissimi per una sfida mondiale, ma la ragione dello scarso entusiasmo stava nelle premesse: per il potente Sonny, campione mondiale da diciassette mesi, si prevedeva un match di routine. Schiacciante la quota degli scommettitori (7-1), nessuna chance per il giovanotto del Kentucky tutto chiacchiere e distintivo, un oro olimpico conquistato quattro anni prima ai Giochi di Roma ma un presente ancora da inventare nel professionismo. Clay aveva movimentato la vigilia con uno show pericoloso, facendosi beffe del campione con insulti urticanti («Sei solo un vecchio, orrendo orso»), pubbliche prese per i fondelli, visite notturne davanti a casa con stampa e televisioni al seguito. Ironia e provocazioni che sarebbero state - lo avremmo scoperto dopo - il suo modo speciale di affrontare la vita, un mix di sfrontatezza e automarketing destinato a scuotere il sonnacchioso mondo della boxe. Liston possedeva un fisico spaventoso. Non tanto per l’altezza, 185 centimetri, e nemmeno per il peso, 96 chili, ma per certi particolari che lo rendevano unico e irriproducibile: un allungo smisurato, le mani più grandi di quelle di Primo Carnera o di Jess Willard, il collo enorme che allenava ogni giorno stando due ore in equilibrio a testa in giù. Altri segni particolari: un passato da malavitoso e un presente da padrone del ring, con una carriera che in quel momento contava 35 vittorie e una sola sconfitta. Sonny aveva conquistato il titolo contro Floyd Patterson, afroamericano come lui ma sideralmente distante per cultura e stile di vita, «un esempio per la gioventù» secondo il presidente Kennedy. Liston lo aveva frantumato due volte: il 25 settembre 1962 in due minuti e sei secondi; dieci mesi dopo, nella rivincita, in due minuti e dieci secondi. Il suo pugno, ovunque colpisse, produceva danni quasi sempre irreparabili. Come avrebbe potuto resistere il giovane e inesperto Clay a questa furia distruttrice? Sonny lo aveva lasciato fare, più sbigottito che arrabbiato, intimamente convinto di poter risolvere la sfida in un round o al massimo due.

Il match, però, raccontò un’altra storia. Fin dalla prima ripresa Liston cominciò a dannarsi l’anima nel tentativo di accorciare la distanza e colpire Clay, che gli ballava intorno e lo mandava a vuoto colpendolo in controtempo con il jab. Lo sfidante vinse le prime riprese, ma dopo la quarta tornò all’angolo lamentando un terribile bruciore agli occhi. Venne rimandato con forza al centro del ring: i suoi “secondi” erano riusciti in qualche modo a neutralizzare gli effetti dello strano unguento di cui erano cosparsi i guantoni di Liston. Fu il momento della svolta: Clay riacquistò vigore e ricominciò la sua danza, Sonny precipitò nella frustrazione.

L’epilogo alla fine del sesto round, quando il campione, nel minuto di riposo, decise di ritirarsi per un dolore a una spalla, fra lo stupore della folla per una resa così improvvisa. La mattina del 26 febbraio, Clay si presentò per la prima conferenza stampa da campione del mondo. A un certo punto un cronista aveva alzato la mano: «Cassius, è vero che sei un membro dichiarato dei musulmani neri?». Sussulto di Clay. David Remnick, autore di una bellissima biografia di Ali intitolata Il re del mondo, ricorda perché: «Uno, dire “membro dichiarato” sapeva molto di maccartismo. Due, la definizione black muslims, musulmani neri, per gli adepti della Nation era un termine ripugnante». Clay aveva lanciato il suo primo messaggio politico: «Io credo in Allah e nella pace: adesso non sono più un cristiano, so dove andare e conosco la verità», confermando di fatto la sua conversione, maturata attraverso assidue frequentazioni con la Nation of Islam e sulla spinta dell’amico Malcolm X, che di quell’associazione politico-religiosa era il numero due.

Qualche settimana dopo il match di Miami, Elijah Muhammad, gran capo della Nation, tenne un discorso alla radio. Sostenne che il nome di Cassius Clay «mancava di significato divino»: da quel momento, lui e i suoi fratelli lo avrebbero chiamato Muhammad Ali. Muhammad, Maometto, significa «degno di lode»; Ali è il cugino del profeta. Cassius Marcellus Clay, che amava il proprio nome («È bellissimo: ti fa pensare ai gladiatori romani»), ne fu sorpreso ma accettò il cambiamento: da allora, avrebbe firmato ogni pezzo di carta della sua vita, dal semplice autografo agli atti notarili, con un semplice Muhammad. E se lo chiamavano Cassius, neppure si voltava.

Quel 25 febbraio 1964 fu l’alba di una grande epopea sportiva e umana. Secondo il filosofo francese Alexis Philonenko, autore di una brillante storia del pugilato, Ali diventò uno degli atleti più acclamati al mondo perché «si è sempre battuto per una certa idea della libertà». Libertà, soprattutto, nell’esprimere opinioni sincere e nell’intercettare il sentimento della gente. Affrontò battaglie legali durissime in nome dei suoi principi: uguaglianza, diritti civili, non-violenza. È stato un “campione del popolo”, ma non solo. Se si ha una certa idea del pugilato, se si inquadra questo sport così discusso in una prospettiva di bellezza estetica, di tecnica, di stile, non si può negare che Ali abbia rappresentato il massimo tra i pesi massimi, e forse di tutta la noble art. La sua boxe fantasiosa - giocata sull’agilità delle gambe, sul guizzo improvviso, sull’intelligenza tattica - rappresentò qualcosa di innovativo e di irripetibile. Sul ring si muoveva ad occhi chiusi, come se fosse nel salotto di casa: occupava gli spazi, ballava intorno all’avversario, colpiva e si ritraeva. È stato farfalla che vola e ape che punge, lo slogan che meglio di ogni altro riassume la sua tecnica pugilistica.

Quanto a Liston, dopo la notte di Miami avrebbe covato per quindici mesi un rancoroso bisogno di rivincita. Il 25 maggio 1965, in un clima di violenze e sospetti che spinse gli organizzatori a scegliere una località fuorimano (Lewiston, nel Maine) e un anonimo palazzetto da 2500 posti, per Sonny finì anche peggio: dopo un minuto dal primo gong Clay lo atterrò con un diretto destro passato alla storia come il “pugno fantasma” (lo videro in pochi, e nessuna sequenza al rallentatore ancora oggi è in grado di risolvere il giallo). Nel mare di dubbi e sospetti che accompagnarono la doppia sfida, l’unica certezza è che Sonny sbagliò tutto. Si preparò poco e male, convinto della propria invincibilità.

Quel che avvenne dopo fu solo una lenta discesa verso l’inferno, segnata da alcol e abuso di farmaci. Poca cosa i tentativi di riemergere in un ambiente che lo aveva emarginato: anche la mafia del ring, così presente nella sua carriera, lo abbandonò al suo destino dopo averlo spolpato fino all’osso. L’ultima vittoria - nel giugno 1970 contro Chuck Wepner, il pugile che avrebbe ispirato a Stallone il personaggio di Rocky -, passò quasi inosservata.

Sei mesi dopo, il 5 gennaio 1971, la moglie Geraldine, al rientro da una vacanza, lo trovò disteso sul pavimento del salotto di casa, a Las Vegas. Era morto da almeno una settimana. Il medico non ebbe dubbi: infarto e polmoni collassati per un’overdose di eroina. Suicidio, insomma. Piccole tracce di punture erano visibili in un braccio. Qualcosa non quadrava: Liston, così grande e grosso, aveva il terrore delle iniezioni… L’ultimo mistero irrisolto di una sfida che ha aperto una nuova era nella boxe.

Claudio Colombo