Parma calcio
Tutto Pecchia. L'uomo, il calciatore, l'allenatore: il ritratto dall'infanzia ai successi
Le partite durano sempre mezza giornata in più, per Fabio Pecchia: comunque vadano. Smaltiti stress e tensione dei 90 minuti, fatti i complimenti ai giocatori nello spogliatoio (spesso, per fortuna, quest'anno) o data la strigliata che si sono meritati, affrontati i giornalisti in sala stampa, i problemi sorgono il giorno dopo. È la telefonata del padre Giuseppe quella che il tecnico teme di più. Giuseppe, detto Pep. Sì, come Guardiola. Da sempre “malato” di calcio e di qualsiasi sport, è – ovviamente – il primo tifoso del figlio. Ma esigente e severo come pochi. Soffre per le sorti del suo Fabio “in differita”: non guarda mai la partita in diretta, non reggerebbe lo stress, preferisce aspettare la mattina dopo, conoscendo il risultato. E il suo “verdetto” è puntualmente il più temuto, non c’è brutto voto nelle pagelle dei giornali che tenga. È un (ex) allenatore vecchio stampo, molto vecchio stampo: «Ma perché non giochi con il libero?», «non sei soddisfatto dell’impegno dei giocatori? Portali subito in ritiro, così imparano», e via di questo passo.
FUORI DI CASA A DODICI ANNI
A papà Giuseppe e mamma Vera (lei segue poco il calcio: le interessa solo che Fabio stia bene e sia felice) l’allenatore del Parma deve tutto, la carriera e non solo. Carriera cominciata molto presto, con una gavetta che, al giorno d’oggi, non riusciamo nemmeno a immaginare. Fabio nasce a Formia e cresce a Lenola, in provincia di Latina. A undici anni gioca nella squadra di Cassino: va a Avellino per un torneo e viene notato da due osservatori, uno dell’Avellino e uno del Napoli. Il ragazzino ha i numeri per diventare un bel centrocampista, lo vogliono entrambi. Tocca al padre scegliere. E non è facile prendere una decisione, per vari motivi. Qualche anno prima la stessa chance era capitata a Francesco, fratello maggiore di Fabio. Ragazzino molto talentuoso, fantasista mancino, tutto estro, dribblomane nato (il contrario di Fabio: destromane, centrocampista solido e concreto, anche se poi affinerà un bel tocco di palla e un discreto fiuto per il gol). Fa un provino per la Lazio, che lo vuole. La madre si oppone: «Mandarlo fuori di casa così piccolo? Non se ne parla».
Quando tocca a Fabio, si impone il padre: «Il ragazzino promette bene, proviamo». E sceglie Avellino, perché gli sembra il club giusto per fare crescere i giovani.
I Pecchia sono una famiglia normale, come tante altre: il padre impiegato all’Enel, la madre casalinga, lavora la maglia e vende i suoi prodotti in un negozietto. Quattro figli: il calciatore mancato, che oggi fa il fisioterapista, Fabio, e due sorelle, una insegnante al liceo e una architetto.
GAVETTA D’ALTRI TEMPI
Avellino a metà anni Ottanta sta provando a risollevarsi dal terribile terremoto. La squadra è salita in serie A (e il protagonista assoluto è stato don Antonio Sibilia, il presidente-padrone). Fabio, a dodici anni, si trova a affrontare una nuova vita. È dura, molto dura. Vive in una grande casa, a Mercogliano, con altri trenta ragazzini selezionati in ogni angolo d’Italia. Abbandonati a loro stessi: a pensarci oggi, con una figlia di quattordici anni, gli vengono ancora i brividi.
A scuola va da solo; quando torna trova un po’ di cibo lasciato lì da un paio d’ore; di notte fa un freddo cane, si va con il cappotto sotto le lenzuola. Dopo la terza media, si iscrive a ragioneria, bisogna andare a Avellino, e ogni giorno è un’impresa: qualche volte in corriera, altre con l’autostop. È dura, molto dura.
Ripensandoci, oggi, non si vergogna di dire che ha pianto tutti i giorni, per ore. È un problema anche solo telefonare ai genitori: il telefono in casa non c’è: quando riesce entra in un negozio dove c’è un apparecchio pubblico, mette un gettone e fa uno squillo a casa: «Mamma, richiamami subito».
Altro che gavetta. Per di più, il responsabile della nidiata di baby calciatori, Gino Corrado, è un “duro”. Se si perde male una partita, o se qualcuno non si comporta bene fuori dal campo, niente viaggi a casa per un mese.
Quella vita gli sembra una cosa più grande di lui, e probabilmente lo è. Qualcuno molla, tanti provano a tenere duro. L’unico che arriverà in alto, molto in alto, è Fabio Pecchia da Lenola. Faranno una discreta carriera Gianluca Franchini (anche quattro presenze in serie A con il Parma, stagione 1992-93) e Sasà Sullo (fino a poche settimane fa vice di D’Aversa al Lecce). Ma niente a che vedere con la carriera di Pecchia: da calciatore 446 presenze e 50 gol (337 e 41 in A, 62 e 4 reti in B, 47 e 5 in C1); da allenatore, già tanti successi e soddisfazioni, e tantissimi altri che gli (e ci) auguriamo.
Con quei compagni d’avventura nasce un legame fortissimo, che si trascina fino a oggi. Anche con Gino Corrado: è anche grazie alla sua intransigenza che Fabio e gli altri hanno forgiato il proprio carattere. Dopo un’esperienza del genere, di cosa mai avrebbero potuto avere paura?
UNA LUNGHISSIMA STORIA D’AMORE
Il modo più naturale per sfogarsi e per superare le difficoltà è impegnarsi al massimo in campo (i risultati sono ottimi, a 18 anni debutta in serie B). Anche la scuola aiuta: all’ultimo anno di ragioneria, pensa a cosa fare dopo la maturità. La scelta dell’Isef sembra scontata, ma una prof di Diritto si mette di traverso: «No, hai i numeri per studiare, punta in alto, non accontentarti». Lo studio del diritto lo attrae, pensa a Scienze politiche, ma decide di seguire la fidanzata, che si è iscritta a Giurisprudenza alla Sapienza di Roma. Una lunghissima storia d’amore, quella di Fabio e Angela: compagni di classe alle elementari e alle medie (fino alla seconda, finché Fabio si è trasferito a Avellino) si sono fidanzati giovanissimi e sposati nel ’98. Una splendida coppia, con tre figlie: Sophie, 24 anni, laureanda in Medicina, Lucrezia, 23, laureanda in Giurisprudenza, e Ludovica, 14, in terza media.
Man mano che passa il tempo, è sempre più complicato gestire la carriera di calciatore e quella di studente. Anche perché nel ’93 arriva la chiamata del Napoli in serie A.
Di mollare non se ne parla. Lascia La Sapienza e di iscrive alla Federico II di Napoli, riesce a dare due-tre esami all’anno. In compenso, dopo un paio di esami, viene “promosso” «avvocato» da Vujadin Boškov. Il leggendario allenatore, appena arrivato a Soccavo, lo trova una mattina con un libro in mano. «Tu chi sei? Cosa fai?». «Sono Pecchia, mister. Studio perché ho un esame, sono iscritto a Legge». «Complimenti, avvocato». Mai chiamato per nome, o per cognome: sempre e solo «Avvocato».
LA LAUREA MENTRE GIOCA IN SERIE A
Angela, intanto, procede spedita, si laurea e avvia la carriera di avvocato (civilista, specializzata in diritti del malato): il suo studio è itinerante, in base agli ingaggi di Fabio: Torino, Genova, Bologna. Fabio si laurea nel 2003: dieci anni, niente male, per un calciatore di serie A. Ma non si sente una mosca bianca, ne parla con grande naturalezza. E non nasconde quanto gli roda, anche tanti anni dopo, non essere riuscito a passare l’esame di abilitazione. Mai pensato di fare l’avvocato, ovvio: però a quel pezzo di carta teneva, per soddisfazione personale. Promosso dopo la prova scritta, respinto all’orale. Una mazzata per il suo orgoglio. Per qualche settimana, gli capita di svegliarsi nel cuore della notte e rivedere l’espressione della segretaria della commissione: «Lei non è abilitato».
Se ne farà una ragione, soddisfazione (in campo) dopo soddisfazione. Ma il tarlo resta.
IL FIUTO DI LIPPI E DI BONIMBA
Arriva alla serie A passando dall’Avellino a Napoli via Parma. Ma, ancora oggi, Pecchia non sa nulla della tappa (solo virtuale) parmigiana. Facile immaginare che c’entrino i buoni rapporti di Calisto Tanzi (proprietario del Parma e sponsor dell’Avellino) con De Mita: al giovane e promettente centrocampista non interessa proprio, giustamente gli preme solo mettersi a disposizione di Marcello Lippi e dare il meglio di sé per sfondare.
A Napoli approda quando si è chiusa da poco l’era di Maradona e dei due primi scudetti e alla fine della stagione di Zola (nella stessa campagna acquisti, Pecchia va al Napoli e Zola arriva a Parma). È un Napoli competitivo, con Fonseca e Di Canio, Ferrara e Bia, Pari e Thern, oltre a giovani in rampa di lancio come lo stesso Pecchia e “un certo” Fabio Cannavaro.
Pecchia diventa in fretta il perno del centrocampo e uno dei punti di forza della squadra. Il ragazzo – sette polmoni, buona visione di gioco, destro “educato” – ha anche un bel carattere e tanta personalità: a 23 anni viene promosso capitano. Se Lippi è il primo a credere in lui, un altro che di calcio s’intende parecchio, Roberto Boninsegna, aveva capito ancora prima del debutto in A il suo valore: «A una selezione per l’Under 21 di serie C a Napoli – ha raccontato Bonimba in un’intervista – mi ha colpito molto. Era una bruttissima giornata, un gran freddo, diluviava: ho visto arrivare un ragazzo con le maniche corte. Mi piace”, ho pensato. Era Fabio. Buon mediano, ragazzo molto intelligente, si capiva immediatamente. Quando ho saputo che si è laureato non mi sono affatto meravigliato».
Nel 1996 Cesare Maldini, commissario tecnico dell’Under 21, lo porta agli Europei in Spagna (vinti ai rigori contro la Spagna: ma Pecchia resta in panchina) e alle Olimpiadi di Atlanta: spedizione sfortunatissima, perché gli azzurri finiscono ultimi in un girone non proprio irresistibile (Messico, Ghana, Corea del Sud).
LO SCUDETTO TRA LUCI E OMBRE
Dopo quattro stagioni lascia il Napoli: sono anni difficili, per le casse del club azzurro. La Juve offre dieci miliardi di lire, che fanno molto comodo, e Pecchia parte per Torino. Ritrova Lippi e trova, per sua sfortuna, una squadra fortissima con un centrocampo stellare (Deschamps, Zidane, Davids): la Juve vince lo scudetto e la Supercoppa italiana, ma per lui c’è poco spazio. Scalpita, è deluso, perché al Napoli era capitano e titolare inamovibile, soffre questa situazione. E reagisce d’impulso: a fine stagione chiede di essere ceduto. Vuole giocare, punto.
Grave errore, rifletterà più avanti: ma a 24 anni quello che gli detta il cuore prevale sulla razionalità. Con le sue doti, avrebbe senz’altro trovato sempre più spazio e si sarebbe tolto molte soddisfazioni.
Da lì in poi, una carriera sfortunata, perché la Juve (che resta proprietaria del suo cartellino) lo fa girare su e giù per lo Stivale, ma sempre in squadre deboli: Sampdoria, Torino, Napoli, Bologna, Como, ancora Bologna, Siena, ancora Bologna, Ascoli. In nove stagioni, cinque retrocessioni con cinque squadre diverse.
“STUDIA” DA ALLENATORE
In compenso, pur non immaginando neanche lontanamente una carriera da allenatore dopo aver smesso di giocare, mette insieme un’esperienza unica, conoscendo tecnici di tutti i tipi. Giovani e esperti, difensivisti e offensivisti, italiani e stranieri. Eccoli, uno dopo l’altro: Lippi, Guerini, Boškov, Maldini, Simoni, Spalletti, Platt, Mondonico, Zeman, Guidolin, Dominissini, Fascetti, Mazzone, De Canio, Ulivieri, Tesser, Sonetti.
Di tutto, di più. Immagazzina tutto quello che vede, che sente, che respira: e gli tornerà molto utile quando in panchina si siederà lui. Da ognuno prende qualcosa: se sarà facile riproporre da allenatore le cose che più apprezza da giocatore, non meno importante sarà non ripetere gli errori che ha visto commettere e subìto. Tutta esperienza. La prima “svolta” tattica è quella di Spalletti: reduce dai successi a Empoli, viene chiamato alla Samp e porta una ventata di novità. È dall’attuale cittì della Nazionale che Pecchia impara come si imposta una partita, come si studia la squadra avversaria, quanto conta “fare superiorità”.
E poi c’è Boškov, altro maestro importante nella formazione del futuro allenatore. Non solo per la tattica: anche per come il tecnico serbo sapeva gestire la squadra, creare un clima rilassato, per la sua capacità di sdrammatizzare e di affrontare le cose con leggerezza. E per come ragionava in modo diametralmente opposto rispetto agli usi correnti: il primo a stravolgere la metodologia di allenamento comune a tutti i colleghi, il primo a fissare le sedute di allenamento al mattino. Il primo in tante cose, uno di quelli a cui Pecchia sente di ispirarsi più spesso.
ANCELOTTI, IL NUMERO UNO
Altro “fuoriclasse” che stima molto è Carlo Ancelotti: non lo hai mai incrociato nella sua carriera (ma è corso all’auditorium Paganini, il giorno della laurea ad honorem, per stringergli la mano), non lo conosce personalmente: ma ha divorato il suo libro, ha sentito tante cose su di lui, da chi ha giocato con Carletto e chi lo ha avuto come tecnico, per essere certo che oggi sia il più importante punto di riferimento, più di qualsiasi altro allenatore in attività: per le vittorie ottenute ovunque sia stato, certo, ma anche per lo stile, per il modo di intendere il calcio, per la serenità che dimostra, sempre.
LA CHIAMATA DEL SUO MITO
Il maestro per antonomasia, però, è Rafa Benitez. Pecchia diventa suo vice per un colpo di fortuna, poco dopo aver smesso di giocare (2009) e aver intrapreso la carriera di tecnico, prima come secondo di Antonio Porta al Foggia, in B, poi come allenatore del Gubbio, sempre in B, e del Latina, in Prima divisione.
A Latina va in scena la sliding door più fortunata di tutte. Viene ingaggiato con l’incarico di ottenere la salvezza: per sette mesi la squadra vince a ripetizione ed è a lungo prima in classifica. Poi comincia a rallentare, ma arriva in finale di Coppa Italia di Lega Pro, vince all’andata ed è terza in classifica. Una sconfitta in campionato gli costa l’esonero. Ci resta malissimo. E chiede un piacere a Filippo Fusco (oggi direttore sportivo della Spal), suo grandissimo amico: sa che è in contatto con Benitez, allenatore del Chelsea, dopo i successi con il Liverpool, e gli chiede di presentarglielo. «Adoravo vedere giocare i suoi Reds, sono innamorato di Benitez, devi farmelo conoscere». Affare fatto.
L’incontro è cordiale, si vede che l’allievo colpisce il maestro: perché due mesi dopo, quando lo spagnolo viene chiamato a Napoli, telefona a Pecchia e gli dice «ti voglio come secondo».
Non crede alle sue orecchie, Pecchia. Vice del suo mito, e per di più nella “sua” Napoli. La definirà a più riprese «un’esperienza straordinaria», con «una persona fantastica». Se da tutti gli allenatori che ha avuto ha preso qualcosa, con Benitez è come chiudere il cerchio, fare la sintesi di tutti gli input immagazzinati. Vent’anni sulla breccia del calcio internazionale, vittorie in tre paesi (Spagna, Italia, Inghilterra), una metodologia unica, che gli permette di preparare alla perfezione stagioni con sessanta o addirittura settanta partite giocate. Un sogno ad occhi aperti: che non si sarebbe realizzato se solo i dirigenti del Latina non l’avessero inopinatamente esonerato verso la fine di una stagione sorprendente.
CON I MIGLIORI TOP PLAYER DEL MONDO
Al seguito di Benitez va al Real Madrid prima e al Newcastle poi. Altre esperienze indimenticabili. A Madrid trova Cristiano Ronaldo e James Rodriguez, Modrić e Benzema, Sergio Ramos e Marcelo. L’università del calcio, il meglio del meglio. E lì, nella pur breve esperienza, impara quali marce in più, al di là delle doti tecniche, abbiano i più grandi top player del mondo: sono talmente esigenti con sé stessi che riescono a trasferire su tutto il gruppo la necessità di alzare il livello delle prestazioni, di porre sempre più in alto l’asticella.
In Premier League capisce la cultura del calcio inglese, a cominciare dal St James’ Park sempre pieno e tifosi in festa nonostante la retrocessione certa.
Il rapporto professionale con Rafa Benitez si interrompe, ma restano un’amicizia solidissima e una stima infinita: i due si sentono molto spesso, i complimenti e i consigli dello spagnolo sono quelli a cui Pecchia tiene di più.
L’AVVENTURA IN GIAPPONE
Due stagioni al Verona (una promozione dalla B alla A e retrocessione l’anno seguente) e poi l’avventura giapponese alla guida dell’Avispa Fukuoka in J2 League. Il direttore sportivo della squadra aveva seguito una settimana di allenamenti del Verona ed era rimasto colpito dallo “stile” spagnolo (molto amato in Giappone) della metodologia di preparazione. Quando un amico gli parla dell’interesse dell’Avispa, Pecchia è molto dubbioso: «Cosa mai potranno sapere di me?». Ma al primo incontro scopre che lo “studiano” da tempo, conoscono ogni minimo particolare. Ci tengono molto ad averlo. Corteggiato con tanta insistenza, parte molto motivato. Ma soffre la distanza da casa. La moglie e una figlia lo raggiungono per due settimane. I genitori stanno in Giappone un mese (è il più bel ricordo in assoluto di Fabio: vedere padre e madre quasi ottantenni vivere in Giappone, in un clima sereno e di grande sicurezza).
Poi, però, non resiste più. E torna a Bologna, che intanto è diventata la sua città.
BOLOGNA: CASA DOLCE CASA
Ha imparato che sotto le Torri si vive bene quando ha vestito la casacca rossoblù. La famiglia l’ha seguito ovunque, in Italia e anche a Madrid, ma poi, con le figlie che crescono, ha deciso con Angela (che nel frattempo ha smesso di esercitare per dedicarsi alla famiglia) che serve un po’ di stabilità. E hanno scelto la città che più era entrata nel loro cuore.
A Bologna Pecchia torna ogni volta che ha il giorno libero e spesso alla sera, per una toccata-e-fuga per stare in famiglia, e la mattina dopo di corsa a Parma.
Qui, poca vita mondana, rare cene al ristorante (quando lo raggiungono moglie e figlie, pizza per tutti) e molte serate in casa, in totale relax con due-tre colleghi dello staff. Merito anche del preparatore atletico, che si destreggia ai fornelli come con le tabelle di allenamento.
L’unica certezza è la meta delle vacanze: “il” paese, non si scappa. Il rifugio è quello: lo adora Fabio, lo adora la moglie, lo apprezzano molto le figlie. Se i giorni di “stacco” sono più di tre o quattro, valigie nel baule e tutti a Lenola.
DA CREMONA A PARMA
Il resto della carriera di Pecchia è storia recente: di ritorno dal Giappone gli viene affidata la Juventus Under 23, che milita in C, e ottiene una vittoria storica, la Coppa Italia di serie C: è il primo successo nel calcio pro di una “squadra B”. Poi la panchina a Cremona, la promozione in A, il divorzio – per sfortuna dei lombardi e per fortuna nostra –, la prima stagione al Parma con un crescendo che certo avrebbe meritato un finale migliore (guai, ancora adesso, a parlargli degli arbitraggi dell’andata e ritorno con il Cagliari). E questo campionato, del quale aspettiamo la fine, partita dopo partita (o finale dopo finale, come predica Pecchia ai suoi) con le dita incrociate.
L’obiettivo di Pecchia è quello di tutti noi, ovvio. Ma ha un sogno che solo lui può capire. Un abbraccio e un «bravo» dal Pep di Lenola. Quello sarebbe il premio più bello. Come l’abbraccio di tutto il Tardini.