Tragedia
Processo Sofia, il pm: «Poco credibili i testi della difesa»
Figurare di non esserci e riversare più responsabilità possibili su chi c'era (almeno per l'anagrafe e forse solo per quella, viste l'età e le condizioni di salute) e oggi non c'è più. Parrebbe questo il filo conduttore della linea difensiva degli ex titolari del Texas di Marina di Pietrasanta, ora nuovo di proprietà e nome. Il 13 luglio 2019 la piccola Sofia Bernkopf annegò negli 80 centimetri d'acqua dell'idromassaggio dello stabilimento, dopo che i suoi lunghi capelli erano stati risucchiati e intrappolati dalla bocchetta d'aspirazione dell'impianto. Per farla riemergere dalla vasca, la si dovette tirare con una forza tale che oltre a una folta ciocca rimase attaccato alla bocchetta un lembo del suo cuoio capelluto. Un medico provò subito a rianimare la bimba, poi si tentò l'impossibile all'Opa di Massa. Tutto inutile: Sofia si spense dopo quattro giorni d'agonia. Aveva dodici anni.
Dei sette imputati a vario titolo a Lucca di omicidio colposo aggravato per questa tragedia, quattro lo sono in quanto ritenuti gli allora titolari (o comunque responsabili della gestione) dello stabilimento. Sono le sorelle Elisabetta e Simonetta Cafissi, 70 e 66 anni, con i rispettivi mariti, Mario Assuero Marchi, 74 anni, e Giampiero Livi, 67. La scorsa udienza, una settimana fa, Marchi, accettando a sorpresa di rispondere in aula, si era definito un semplice consulente della Finanziaria Dante, allora proprietaria dei bagni. E aveva sostenuto di essersi occupato - da commercialista - soprattutto della cessione dell'attività, dopo essersi limitato per anni ad accompagnare la moglie allo stabilimento di tanto in tanto. Parole poco dopo messe in dubbio dalla testimonianza di un altro degli imputati, Thomas Bianchi. «Al Texas - aveva riferito il bagnino apprendista, 19enne all'epoca dei fatti - ritenevamo nostri capi le sorelle, i loro mariti ed Edo Cafissi». Quest'ultimo era il patriarca, di certo una figura forte nella famiglia e nella gestione degli affari. Ieri, il suo nome è risuonato più volte in aula. I vari testi della difesa hanno sostenuto come fosse lui a reggere le redini dello stabilimento. Sulla stessa linea Filippo Livi, figlio di Giampiero e Simonetta Cafissi: per lui il nonno era il deus ex machina della situazione.
Linea convincente fino a un certo punto, tanto da comportare rischi. Lo dimostra la richiesta di trasmissione degli atti in Procura per falsa testimonianza a carico del nipote di Edo Cafissi. Ad avanzarla al giudice Gianluca Massaro è stato il pm Salvatore Giannino, dopo il controesame del teste: il figlio della coppia imputata è parso in difficoltà di fronte alle domande del magistrato e dell'avvocato Stefano Grolla, che assiste i genitori di Sofia costituiti parti civili. Non è facile risultare credibili, quando si racconta che la gestione di una finanziaria dai molteplici interessi è tutta sulle spalle di un nonno che nel 2018, già 91enne, aveva subito un incidente grave al punto da perdere la mobilità. Edo Cafissi, da un certo punto di vista, potrebbe essere il «responsabile perfetto». A sua volta indagato per questa tragedia, è morto nel febbraio del 2022: ormai è fuori dalla portata del giudizio degli uomini.
Massaro ha preso in considerazione la richiesta del pm, riservandosi una decisione al termine dell'istruttoria dibattimentale. Non è detto, poi, che la trasmissione degli atti per falsa testimonianza non possa riguardare anche altri che hanno deposto ieri.
L'udienza è stata più tecnica di altre, ma non per questo meno dura per i genitori di Sofia, Edoardo e Vanna, come sempre presenti in aula a Lucca. Ci saranno anche il 6 maggio, quando proseguirà la sfilata degli altri testimoni di Simonetta e Elisabetta Cafissi. La lista era più lunga, ma la difesa ha dichiarato di voler rinunciare ad alcuni nomi. Richiesta che tuttavia si è scontrata frontalmente con l'opposizione dell'accusa e della parte civile. In particolare, il pm Giannino e l'avvocato Grolla vogliono ascoltare Jessica Landucci, consulente del lavoro della Finanziaria Dante della famiglia Cafissi, sul contratto di lavoro di Bianchi, messo in regola per quattro ore, quando invece - a suo dire - doveva vigilare sulla sicurezza di un'area vasta e affollata quanto quella delle piscine per giornate intere. Vasta, affollata e pericolosa, come dimostrato da quel maledetto 13 luglio.
Roberto Longoni