Editoriale
Al centro il futuro dell'Europa
Dobbiamo ringraziare il professor Magnani, con la Fondazione Bancamonte che lo ha ospitato e le stimolanti domande del direttore Rinaldi, per la brillante presentazione del suo ultimo libro sull’arretramento del processo di globalizzazione. Come ha sottolineato il discussant, l’ingegner Pontremoli (ceo della Dallara), ci sono momenti di grandi cambiamenti, in cui dobbiamo fermarci a riflettere.
La globalizzazione -ovvero l’aumento vertiginoso degli scambi internazionali commerciali e dei movimenti di capitali- negli ultimi 40 anni ha contribuito alla crescita globale del mondo. In modo particolare, la crescita di quei paesi emergenti - Cina, India e gli altri paesi dell’estremo oriente- ai quali la globalizzazione ha offerto l’opportunità di avviarsi su un sentiero di sviluppo, che ha portato alla creazione di una classe media, che da sempre rappresenta la modernizzazione vera di un paese economicamente avanzato. Lo verifichiamo quotidianamente nelle nostre città -Parma inclusa- con l’enorme afflusso di turisti da ogni parte del mondo.
Ma nelle vicende economiche -lo sappiamo da sempre- non esistono mai soluzioni definitive: ogni soluzione è solo temporanea, a sua volta si tradurrà in un problema futuro.
Così è per la globalizzazione: l’ingresso della Cina nel Wto (voluta dagli Stati Uniti) doveva rappresentare l’opportunità per i cinesi di entrare a pieno titolo nel commercio mondiale. Ma quando la Cina ha iniziato ad avere problemi interni, come l’enorme ammontare di investimenti nel settore immobiliare (le ormai famose città vuote), senza aumentare la domanda interna, è entrata in una crisi di crescita, che ha pensato di risolvere rilanciando le esportazioni con finanziamenti pubblici, che è vietato dalle leggi del commercio internazionale, perché ne distorce alla base le regole della concorrenza. A questo si aggiunga la volontà della Russia di riprendere (con l’aggressione all’Ucraina) il suo posto tra le potenze mondiali; si aggiungano le aspirazioni ad assumere il ruolo di potenze regionali di paesi come l’India, l’Iran, il Brasile, la Turchia, il Sudafrica, l’Indonesia, il Messico, l’Arabia Saudita, con un elenco in corso di costante aggiornamento.
Tutti questi cambiamenti in un contesto di democrazie autentiche in arretramento (con la prevalenza di democrazie popolari-autoritarie), e la militarizzazione dei singoli paesi, non solo per fronteggiare le minacce esterne, ma soprattutto per rafforzare il proprio potere nazionale.
Questi cambiamenti con una lotta ideologica contro l’egemonia culturale liberale occidentale (inclusa una certa venatura moralistica), contro il presunto neocolonialismo euro-americano, contro il dominio finanziario del dollaro (ed in subordine dell’euro). Un misto di legittime aspirazioni nazionali e di opportunismo nazionalistico strumentale.
In questo mondo che cambia gli Stati Uniti hanno cambiato strategia. Anzitutto per ragioni interne. La popolazione americana che vota -che in democrazia è l’unica cosa che conta - è mutata dal punto di vista antropologico. La vecchia maggioranza Wasp (White-Anglo-Saxon-Protestant) si sta rapidamente riducendo per effetto dei mutamenti demografici naturali, e delle immigrazioni, non solo di latinos ma anche asiatici. I nuovi americani non aspirano all’impero mondiale, ma anzitutto alla prosperità interna, ad un’America land of opportunity. Sempre tenendo conto che gli americani sono pienamente consapevoli di essere economicamente autosufficienti. Hanno tutte le risorse necessarie per la loro economia, e non hanno bisogno di non importare alcuna merce. La politica americana si sta adeguando, prendendo atto dei cambiamenti elettorali (la svolta ci fu nel 2016 con l’elezione di Trump). Sta emergendo un elettore “scaffle”: cioè, che “vuole la giustizia sociale, ma vuole pagare poche tasse”.
Ovviamente un impero costa molto, anzi troppo. Da qui il ritiro (parziale) dell’America dal mondo, che non deve essere interpretato come declino, ma come un vero e proprio cambio di strategia a lungo termine. Basta con le guerre (Afghanistan e Irak) per esportare la democrazia, con la dislocazione in giro per il mondo di centinaia di proprie basi militari. Costano troppo al cittadino-votante americano. È sufficiente (si fa per dire) mantenere la leadership militare in parallelo alle innovazioni tecnologiche, continuare ad attrarre i migliori manager e scienziati del mondo (con pacchetti di remunerazione adeguati), offrire ampio spazio alle startup, continuare a dominare il mercato dei migliori prodotti tecnologici-culturali.
È evidente che in questo mondo che cambia, la parte più debole oggi la occupiamo noi europei. Perché l’Europa presenta alcune fragilità pericolose per il nostro futuro. Le elenchiamo noi quotidianamente. Non abbiamo una politica estera comune (con alcuni paesi che fanno i furbetti. Cercano di prendersi l’attenzione differenziandosi, come se l’Europa fosse il mercato dei detersivi). Non abbiamo una difesa comune, perché molti paesi si vogliono difendere a spese degli altri… e le spese per il welfare state sono (giustamente) più remunerative sul piano elettorale. Certo, la pace è l’aspirazione universale, ma se un nuovo Hitler ti entra in casa, tu cosa fai?
Una riflessione -sull’Europa- che si conclude sempre con la considerazione che “ah non ci sono più i leader di una volta”, come se i problemi del mondo fossero gli stessi di 30 anni fa. Ecco perché le prossime elezioni europee saranno così importanti, molto di più che non nel passato. Il dilemma è “più Europa o meno Europa”. Nel votare, immaginiamo di votare con la mente rivolta ai sogni dei nostri nipoti.