Il caso

Emoderivati infetti, 56enne vince «a sorpresa» la causa

Roberto Longoni

Una battaglia può solo cercare di «pareggiarla» il più a lungo possibile, grazie alle cure e a uno stile di vita calibrato al milligrammo, evitando grassi, eccessi (o anche piccoli strappi alla regola) e stress. È quella con l'epatite cronica, che marca stretto Mario (lo chiameremo così, con un nome di fantasia) da poco dopo la nascita, compromettendo la qualità della sua esistenza, senza concedergli possibilità di guarigione definitiva.

Un'altra, invece, meno lunga e vitale ma comunque importante a livello sia economico che di principio, il 56enne parmigiano l'ha appena vinta, non senza difficoltà, contro il ministero della Salute che riconosceva le sue ragioni, ma per una questione di tempo gli negava la possibilità di farle valere.

E invece alla fine è stato lui a spuntarla, ottenendo un successo che va anche al di là del proprio caso. Perché «questa - come sottolineano gli avvocati Marcello Gianini e Maria Cristina Baldassari, al fianco di Mario dal 2018 - è una sentenza che restituisce speranza a tante persone che vivono la medesima situazione difficile del nostro cliente».

Per decenni, l'epatite consumò il paziente nell'ombra: Mario non riusciva a capire che cosa gli impedisse di essere come gli altri. A lungo la patologia era rimasta silente, mentre lui non dava più di tanto peso ai sintomi che lo accompagnavano da sempre, procurandogli problemi nello studio, al lavoro e nella vita sociale e nelle relazioni sentimentali. Perché Mario da sempre è malato, dopo essere stato contagiato a poche settimane dalla nascita con una trasfusione di albumina umana infetta. Solo nel 2006 l'epatite gli venne diagnosticata: ma come l'avesse potuta contrarre per lui restava un mistero.

Fu nel 2013 che l'operaio rimise insieme i tasselli, confrontandosi con un sindacato. «Mai subito trasfusioni?» gli fu chiesto. Cercando tra i documenti di famiglia, Mario trovò (un miracolo che le avesse ancora) le cartelle cliniche che attestavano che l'emoderivato gli era stato somministrato poco dopo la nascita.

Forte della cartella clinica, Mario fece causa, e la commissione medica ammise che il suo contagio era avvenuto in ospedale. Ma spesso dall'avere ragione a vedere riconosciuti i propri diritti ce ne corre. Troppo tempo era trascorso - stando a chi gli negava qualsiasi risarcimento - dal 2006, anno della diagnosi, perché gli fosse concesso il «riconoscimento economico» previsto dalla legge 210 del 1992.

In realtà, come ricorda Gianini «la Cassazione ha stabilito che il conto alla rovescia, di tre anni prima della decadenza della causa, scatta non quando si viene a conoscenza della patologia, ma quando si capisce come è stata contratta». Mario, il motivo del contagio, l'aveva scoperto nel 2013 e pochi mesi dopo aveva avviato la causa (prima, come avrebbe potuto sapere con chi prendersela?).

«Così, per chiedere l'indennizzo ci siamo rivolti al giudice del lavoro di Bologna, titolare di queste cause per la nostra regione - proseguono i due legali - e l'Avvocatura di Stato non ha potuto difendere la posizione ministeriale». La vicenda si è chiusa con il riconoscimento a Mario di un'indennità bimestrale di 1700 euro e di 110mila euro di arretrati dal fatidico 2013. In realtà, la sentenza è stata la penultima tappa nel cammino giudiziario del 56enne. Per costringere il ministero a pagare, il paziente (due volte, visti i tempi necessari per avere giustizia) ha dovuto chiedere anche un giudizio di ottemperanza al Tar. Il ministero sarà tenuto a pagare anche le spese sia del primo grado che del ricorso al Tar.

Roberto Longoni