IL CASO ONOFRI

Sequestro Tommy, Raimondi in semilibertà: fa il magazziniere a Forlì e si è sposato. La mamma di Tommaso: «E' ingiustizia»

Georgia Azzali

L'uomo che sfilò Tommy dal seggiolone. E lasciò l'impronta decisiva sul nastro adesivo con cui fu legata tutta la famiglia. Ma Salvatore Raimondi, l'ex ragazzo della banda con la passione per la boxe, fu anche il primo a confessare l'orrore, la sera del 2 marzo 2006. A raccontare che erano stati lui e Mario Alessi, con la complicità di Antonella Conserva, a rapire Tommaso Onofri. E che il bambino, 18 mesi non ancora compiuti, era morto. «Non doveva finire così», disse Raimondi, ma fu Alessi a colpire con una vanghetta e soffocare il bambino in via del Traglione, quando lui se ne era già andato. E i giudici gli hanno creduto: Raimondi è stato condannato a 20 anni «solo» per il sequestro di Tommy. Ne ha scontati 16 e mezzo (grazie agli sconti dovuti alla «liberazione anticipata» per la buona condotta), ma è ancora in carcere perché nel 2018 è stato condannato in via definitiva a 3 anni e mezzo per estorsione nei confronti di un altro detenuto: l'accusa, che ha sempre respinto, è quella di aver messo in piedi, insieme a un complice, un giro di gioco d'azzardo (con tanto di minacce a chi non pagava) quando era rinchiuso a Ferrara. Ma da qualche settimana Raimondi, assistito dall'avvocato Marco Gramiacci, ha ottenuto la semilibertà: esce la mattina presto dal carcere di Forlì e va a lavorare come magazziniere in una ditta della città.

C'è chi giura (non solo il suo avvocato) che Raimondi sia un uomo diverso. Certo è che ha mantenuto fede a una «promessa» che fece scrivendo una lettera nel 2013 a Franco Cavalli, l'avvocato, scomparso due anni dopo, che lo assistette durante la fase delle indagini e per tutto il processo: «La mia dignità e il senso di colpa mi costringono a rifiutare i permessi, non mi sembra giusto dopo le ferite causate a quella donna (la mamma di Tommy, ndr), anche se la mia volontà era ben differente, come diverse erano le informazioni ricevute dal quel diavolo del mio coimputato». E permessi o benefici, a parte il riconoscimento della «liberazione anticipata» per buona condotta, non ne ha chiesti mentre scontava la pena per l'orrore di quella sera di marzo.

Non basta per cambiare anima. Ma c'è chi assicura che Raimondi abbia affrontato anche un importante percorso psicologico di rieducazione. Nel 2016, inoltre, è anche convolato a nozze in carcere con una detenuta. E da qualche tempo ha quel lavoro da magazziniere da cui ripartire. Pensando già al fine pena, che dovrebbe arrivare tra la primavera e l'estate del prossimo anno.

E' stato il complice del sequestro. Quella sera di marzo guidò lo scooter fino a strada del Traglione. Dopo la prima confessione, subito dopo l'arresto, il 1° aprile 2006, l'hanno interrogato una decina di volte. Raimondi ha parlato, risposto, puntualizzato: e raccontato di un piano che cambiava ogni giorno, di un riscatto da 5 milioni euro, di Alessi che si vantava dell’amicizia di Onofri, di un omicidio a cui non ha creduto finché non è stato trovato il corpo del bambino, sepolto a pochi passi dall'argine dell'Enza. «Pensavo che Alessi volesse fregarmi, che mi avesse detto che lo aveva ucciso solo per tenersi tutti i soldi. Quando me ne sono andato era ancora vivo», ha sempre sostenuto. Il giorno dopo però Alessi lo aveva chiamato fissando un incontro: «Mi ha raccontato di averlo strangolato. Mi ha detto: l’ho ammazzato perché il bambino era diventato pericoloso», aveva spiegato Raimondi agli inquirenti.

Non ha mai tentennato nemmeno su Antonella Conserva, allora compagna di Alessi. Fu lei, secondo l'ex pugile, a cucire i passamontagna per quella sera. E fu a lei che lui telefonò subito dopo aver lasciato Alessi in via del Traglione. La donna che avrebbe dovuto prendere in consegna il bambino, secondo l'accusa. Ma quando squillò il telefono, Tommy era già stato ucciso.

L'abisso. Dopo un mese di angoscia. Di speranze solo sussurrate.

Fa quasi fatica a pronunciare i nomi. Vorrebbe dimenticare i volti e i ricordi di Mario Alessi, Salvatore Raimondi e Antonella Conserva. Eppure, non ha timori, Paola Pellinghelli, perché da diciotto anni cerca di rimanere a galla su quell'onda di dolore. I rapitori di suo figlio Tommy «non esistono più - dice - . Ma non posso provare che una profonda amarezza quando sento parlare di permessi, sconti o semilibertà. Questa non è giustizia, è ingiustizia».

E quando le racconti che Raimondi ha rinunciato a chiedere permessi e benefici mentre scontava la condanna a 20 anni per il sequestro, è ancora più amareggiata. «Mi pare una doppia presa in giro, perché questi benefici non dovrebbero nemmeno esistere. Una condanna, soprattutto per reati così gravi, va scontata interamente. Noi familiari, non abbiamo nessuno sconto sul nostro dolore».

Non si può imporre il perdono. Né la riconciliazione. Ma Paola Pellinghelli in questi lunghi anni ha sempre lottato. Per sopravvivere. Per proteggere l'altro suo figlio, Sebastiano, 26 anni, una laurea in Scienze motorie e una vita da costruire. E per sostenere l'associazione benefica nata nel nome di Tommy. «Ma ho anche imparato ad essere meno egoista e a valutare le cose per il valore che hanno», dice.

Georgia Azzali