Tutta Parma
C'era una volta La Salle
L’istituto De La Salle, da 16 anni, ha cambiato sede ospitando ragazze e ragazzi nei razionali, moderni ed eleganti locali di via Berzioli. Però, chi «over anta» in passato ha frequentato l’istituto lasalliano, non può non avere nel cuore le immagini della storica sede di vicolo Scutellari e di quei cortili all’ombra dei campanili del Duomo e di San Giovanni come ricorda molto bene l’inossidabile Fratel Piero che ha vissuto in prima persona lo storico trasloco. Da questa scuola, voluta oltre un secolo e mezzo fa dall’arciduchessa Maria Luigia che chiamò nella nostra città dalla Francia i Fratelli delle Scuole Cristiane, sono passate intere generazioni di parmigiani che, sui banchi di questo istituto, hanno imparato a leggere, far di conto, ma anche altre «materie» molto importanti che, ad ognuno, servirono per affrontare la vita: l’amicizia, lo stare insieme, il senso di appartenenza ad una comunità che, in tutto il mondo, grazie al santo educatore francese, ha forgiato tantissimi giovani.
Un ex allievo che ha frequentato La Salle ciò che indubbiamente non potrà mai dimenticare sono quei momenti di ricreazione che si vivevano nei mitici cortili della scuola: quello grande che ospitava i ragazzi delle medie, mentre quello piccolo vedeva sgambettare i pulcini delle elementari. Era un brulicare intenso e continuo di giovani che iniziava nel momento della ricreazione ed il cui termine veniva sancito dal Fratello di turno il quale, con tre trilli di fischietto come un arbitro, radunava le sue sudate e scalmanate truppe per riaccompagnarle in classe per le lezioni o il doposcuola. In quei cortili, molti parmigiani hanno disputato mai contate partite di calcio con certe pallonate che, molte volte, non risparmiavano nemmeno la grotta della Madonna di Lourdes che, come una paziente mamma, vegliava la numerosa famiglia lasalliana. Capitomboli a non finire, schiamazzi, bernoccoli bagnati con l’acqua fresca delle fontanelle con lo zampillo ed anche qualche lite tra focosi calciatori veniva subito sedata dai Fratelli affinchè la situazione non degenerasse. E poi i momenti della merenda mattutina delle 10.30 tutti in fila per la pizza che si piegava in due per gustarla meglio ma, soprattutto, più rapidamente per non perdere un solo minuto di gioco, oppure i panini con il salame lombardo all’aglio. E, al pomeriggio, la rosetta con la stecca di cioccolata alla nocciola e il sempre rifornitissimo cesto di mele. Quando il tempo era inclemente e le squadre non si potevano affrontare con le partite di pallone, il porticato, rappresentava un’ improvvisata palestra per incontri di pallavolo o per giocare a figurine.
Mentre l’ora del pranzo nel refettorio rappresentava una vera e propria liturgia ritmata dalla solita gazzarra che, se si faceva troppo insistente, veniva placata dall’ urlo di un robusto Fratello dalla voce baritonale (e come non ricordare le urla di Fratel Augusto?). E, poi, tutti seduti nei tavolini a quattro posti, si consumavano quei cibi che rispettavano, come documenti notarili, i giorni della settimana
. Il lunedì, pasta di grossa taglia al pomodoro e cotoletta impanata con contorno di patate fritte cucinate dalla mitica cuoca mentre al venerdì, che era il giorno più «drammatico» per chi si fermava a pranzo, di rigore, era un riso collosissimo servito con il mestolo (autentico spauracchio dei giovani commensali), merluzzo fritto, oppure tonno e l’immancabile insalata di verza o finocchi crudi. Per finire, la solita mela oppure l’arancia il cui profumo rimaneva incollato alle mani fino a sera spandendosi nelle aule che odoravano di gesso e inchiostro. C’erano poi i giorni in cui veniva celebrata la messa nella cappellina dell’Istituto. Una cappella catacombale ma molto raccolta dove, a turno, i ragazzi servivano messa a volte in modo molto distratto e tale da tirarsi addosso gli strali dei Fratelli. Una delle icone de La Salle di Parma unitamente a fratel Contardo, fratel Augusto, fratel Gustavo, fratel Aurelio, fratel Ermanno, fratel Clemente e ad altri fratelli. fu Fratel Benigno, scomparso a 96 anni nel 2009.
Di famiglia contadina, fratel Benigno, con quell’accento «piemunteis» che, nonostante la lunga permanenza a Parma non aveva perso, non solo era persona di vastissima cultura e grande sensibilità, ma fu pure uno straordinario educatore. Per lui gli alunni e i loro genitori erano una grande famiglia e, quando si rapportava, sia con i suoi scolari che con papà e mamme, riusciva sempre a sfoderare quel sorriso bonario che induceva all’ottimismo. Anche nelle situazioni più difficili e complesse, fratel Benigno, riusciva sempre a saltarne fuori coniugando quell’ antica saggezza piemontese che non lascia spazio ai fronzoli, ma va diretta alla sostanza delle cose. Arrivò a Parma alla fine degli anni cinquanta e prestò servizio nell’Istituto di vicolo Scutellari fino agli anni novanta insegnando italiano, storia, geografia, latino, religione e musica. La musica, infatti, era uno dei suoi «pallini». Fu per anni maestro inflessibile e rigoroso della «Schola Cantorum» che si esibiva nelle occasioni importanti, in particolare, la notte della vigilia di Natale animando la liturgia molte volte celebrata da un altro grande religioso scomparso anni fa: monsignor Pietro Rossolini.
E, a questo punto, non possono non accavallarsi ricordi che, in un elegiaco galleggiare a mezz’aria, si rincorrono nella mente destando profonde emozioni e non poca commozione. Tutti i genitori, alla notte di Natale, partecipavano alla tradizionale messa della mezzanotte nella cappellina dell’Istituto. Fratel Benigno, unitamente alla sua squadra di coristi, un’ oretta prima, scaldava le voci dei ragazzi con esercizi canori che erano durati per tutto l’Avvento. Munito di un sacchettino di mentini bianchi che distribuiva alle sue giovani voci, Fratel Benigno, dirigeva il coro dimenandosi come una tarantola su un predellino sul quale saliva per vedere tutti in faccia. Si provava e riprovava fino a che l’esecuzione, tra qualche «ma basta là!!!», gli pareva perfetta. Rigoroso, severo, dolce, il «prof», difficilmente perdeva la calma. Ma, quando ciò avveniva, il malcapitato, si prendeva certi predicozzi che gli rimanevano impressi per un bel pò di tempo. Juventino dichiarato, orgoglioso di essere un monferrino, amava tantissimo la sua terra e quelle colline che lo videro bambino, con i fratelli e con i genitori, intento al lavoro dei campi. Non disdegnava la buona tavola e soprattutto i piatti della sua terra, in modo particolare la «bagna caûda» e l’unica licenza che si concedeva era fiutare il tabacco che estraeva con cura da un’ antica tabacchiera che teneva nelle lunghe tasche dell’ abito avendo sempre l’avvertenza di cancellare con la mano eventuali tracce di tabacco che si fossero posate sulle nivee facciole lasalliane.
Sempre sull’onda degli amarcord come dimenticare, del vecchio istituto, quelle scale ripide che venivano volate in salita da chi, alla mattina, arrivava in ritardo e doveva raggiungere il proprio banco prima che suonasse la campanella, oppure, al termine delle lezioni, per scendere e consentire ad alcuni di andare a casa e ad altri di recarsi nel cortile per la partitella prima del pranzo? Ed ancora: la «direzione» sempre linda e in ordine con le porte protette da eleganti tendine dietro le quali il direttore con gli altri insegnanti vergava i registri con i tanto temuti voti, la sala dove gli insegnanti ricevevano i genitori, la segreteria, il refettorio dei Fratelli ovviamente, per i ragazzi, zona off limits, la palestra, la sala delle proiezioni e l’alloggio di Ugo, il bidello, che con una palandrana nera e un carattere molto accomodante, a volte, riusciva a perdere la pazienza rincorrendo qualche manigoldo che ne aveva combinato una selle sue. Un mondo magico fatto di sport, di studio, di preghiere, di sonore sgridate, di sorrisi, di affetto, di momenti comunitari suggellati da grandi esempi di dedizione e di attaccamento alla scuola e ai ragazzi da parte dei Fratelli, i più giovani dei quali, non mancavano di rimboccarsi la tonaca e partecipare alle partitelle con i loro allievi.
Un altro momento importante per il mitico cortile era la foto di classe. Tutti insieme, appassionatamente, disposti su alcune panche, i ragazzi, posavano per il clic di un paziente fotografo che non riusciva a far star fermi i suoi modelli. Ma ecco, finalmente, lo scatto che immortalava un sorriso beffardo, un viso accigliato, un tentativo di fare le corna sulla testa di chi stava davanti. Una foto che immortalava i momenti più belli della vita di ogni ragazzo che avrebbe poi gustato quando, adulto, rimirava quell’immagine sentendo riecheggiare come per magia gli schiamazzi dei cortili, il profumo delle patatine fritte o il gusto colloso di quel riso di magro del venerdì.