TUTTA PARMA

Oche e pannocchie, riti di settembre nelle aie

Lorenzo Sartorio

C’erano alcuni lavori in passato, in campagna, che si potevano fare da seduti e che, francamente, rappresentavano una bella comodità rispetto a tante altre occupazioni agricole che, non solo non si potevano praticare in maniera comoda, ma necessitavano di grandi sforzi ed altrettante fatiche. Uno di questi lavori che potremmo definire «comodi» era quello del «pelaoche».

Il «pelaoche», era un uomo (o donna) che passava di corte in corte per spiumare le oche che un tempo (unitamente a galline, conigli e piccioni), non solo rappresentavano un’ottima riserva di carne, ma con le loro piume si potevano ricavare trapunte, materassi e cuscini. Le oche venivano pelate in vita, due o tre volte, quindi ripiumavano ancora prima di essere definitivamente immolate a novembre. In alcune zone tra il piacentino ed il pavese era usanza (e a Mortara vige ancora la tradizione) confezionare il salame ricavato con la carne di oca, mentre dalle nostre parti i capi in eccedenza venivano frolliti sotto la neve e poi accuratamente deposti nella «giasära» (la ghiacciaia agreste ricavata sotto terra e sempre colma di neve estate ed inverno) affinché potessero offrire adeguato cibo in tempi di magra. Mentre invece il grasso veniva utilizzato nelle più svariate maniere, sempre a scopo gastronomico, in tempi in cui la mancanza di condimenti rappresentava una costante. L’oca era un animale da cortile particolarmente ambito in quanto, a parte le ottime carni, offriva un piumaggio molto gradito alle ragazze da marito le quali, con quelle morbide piume, si preparavano la dote per quanto concerneva materassi, cuscini e trapunte. Se l’annata era stata propizia e se le oche erano numerose, una parte veniva venduta al mercato dalle «rezdóre» le quali, con quei quattro soldi tutti loro (in quanto il pollaio era di appannaggio muliebre), acquistavano stoffe e chincaglierie dagli ambulanti che, periodicamente, varcavano l’ingresso della corte con il loro barroccio carico di «tesori». Venivano spennate anche galline ed anatre con riti un po' diversi. Ad esempio, le galline («còlli da brod»), venivano spennate in prossimità delle grandi feste mentre le anatre, specie quelle novelle, venivano spennate solitamente in piena estate per il pranzo del ferragosto. Non dobbiamo dimenticare il piatto tipico del Cornazzano, ossia le anitre novelle arrosto (chiamate in loco «sjorén’ni» ) delle quali sono imbattibili facitrici le cuoche viarolesi che si contendevano il primato del miglior «nàdor 'rost» alla «cena fra le stroppie» che si svolgeva nell’antica fiera agricola.

Un altro lavoro che si poteva fare agevolmente da seduti era quello della spannocchiatura, protagoniste le pannocchie di granturco («al melgón») che venivano spogliate del loro involucro. A settembre, nel periodo del raccolto, le pianticelle si trasformano in un vero e proprio bosco in mezzo al quale è difficile districarsi. «Al melgón», anticamente era chiamato «grano indiano». Secondo antichi trattati di erboristeria «era malamente chiamato da alcuni formento turco perciochè s'è portato dalle Indie occidentali e non dalla Turchia».

Adesso la semina è affidata alle macchine ma una volta a seminare i grani in fila, uno dopo l'altro, era l'uomo seguendo la traccia di un filo tirato sul terreno. In piccole fessure della terra ricavate con un attrezzo chiamato «cavùcc'», si metteva un seme per ogni buco per non rendere ancor più impegnativo il lavoro di diradamento e la raccolta. Al «grano indiano» il padre dell’etnografia parmense Enrico Dall'Olio dedicò una delle sue più belle e romantiche pagine in «Tradizioni Parmigiane» (Grafiche Step Editore). «Quando le pannocchie - è riportato nel libro di Dall'Olio - si vestivano di un colore più vicino a quello della terra che del sole, erano le donne, gli uomini e i bambini in abiti dimessi e cappelli a larghe tese a scendere in campo per la raccolta a mano».

Ma, l'appuntamento più significativo ed atteso per la gente dei campi di ieri, specie per le ragazze ed i ragazzi, in quanto coincideva con lo sbocciare di possibili fidanzamenti, era la «spannocchiatura» o meglio la «scartociäda» settembrina al chiar di luna. Infatti, l'impresa dello spannocchiare, ossia dello svestire le cosiddette «manse» dalla loro guaina, si effettuava generalmente di sera al chiaro della luna di fine estate o di una lanterna sotto lo sguardo complice delle stelle. Ma a questo punto, Dall'Olio, riesce veramente a fare un dipinto della «scartociäda pramzàna» a tinte stupende.

«Schierati a cerchio i partecipanti andavano a gara a liberare le pannocchie dal loro involucro. Erano armati di un punteruolo di legno, di osso o ferro. Poteva servire anche un chiodo assicurato ad un cordicella legata al polso o alla cintura dei calzoni onde evitare che si smarrisse tra gli «scartòc' äd melgón». Anche le guaine svuotate del loro piccolo tesoro, destinato a diventare polenta, venivano utilizzate per riempire i «pajón» ossia i materassi dei poveri, quelli sui quali dormivano i mendichi che bussavano alla porta della cascina coi primi freddi oppure i «famij da fagót» che venivano reclutati per il lavoro dei campi». La «scartociäda» prevedeva anche momenti spensierati ritmati dalle portate di croccante tortafritta, accompagnata da qualche fetta di salame, vino buono e sugo d'uva appena fatto. E poi, come accadeva alle mondine, il canto è sempre stato il fedele compagno di chi lavorava. Ed allora si levavano al cielo suggestivi cantari impreziositi dal «cri cri» del grilli «a smansär sott' al stéli i vénon ànca 'l putéli». Si dice che fosse un assiduo frequentatore delle scartocciate anche don Ferdinando di Borbone, il duca campagnolo che amava confondersi tra i contadini intrattenendosi a tavola con loro, partecipare alle veglie nelle stalle e, quando poteva, rifugiarsi nel suo buen retiro di Copermio di Colono lontano dalla frivola vita di corte. Le pannocchie ripulite dal loro involucro venivano poi stese sull'aia per la battitura che si svolgeva a suon di «sérci e varzéli», strumenti appositi manovrati energicamente dagli uomini fino ad ottenere una completa sgranatura.

Se si trattava di quantità minime si poteva sgranare una pannocchia contro l'altra, oppure le si sfregavano contro una lastra di ferro. I chicchi, quindi, venivano separati dal fusto, « sgandòj», che, seguendo l'assunto secondo il quale una volta in campagna non si buttava via nulla, era utilizzato per alimentare quel «fógh mórt» che emanava un blando calore adatto all'autunno oramai alle porte. I chicchi di granturco sparsi qua e là nell'aia non andavano certo persi ma erano appannaggio delle galline «francesine» le quali, in cambio di questa «prelibatezza», regalavano alla «rezdóra» uova più gialle del solito che servivano a fare la «fojäda da sjòr», quella delle feste, e cioè più gialla delle altre fatte con le uova di galline che non avevano beccato il «melgón». La «scartocciata», come la vendemmia, che portava alla ribalta figure di secondo piano come il venditore di graspi, aveva anch'essa il suo personaggio e cioè il venditore di «scartocci». Si trattava di un' attività molto povera ma utile. Coi gli «scartòc' äd melgón» l'uomo, con il suo carretto, girava per le campagne e la città per vendere la sua merce che finiva nei pagliericci. Ma con gli «scartòc' e i sgandòj» i nonni, durante le lunghe veglie invernali, coniugando fantasia ed estro, creavano le bambole per le nipotine per la notte di Santa Lucia. I gambi del granturco («stocchi»), una volta raccolti ed accumulati, servivano a fare bollire l'acqua per il fare bucato con la cenere che si effettuava nell'aia.

Quando si parla di granoturco non si può non pensare alla polenta che, un tempo, con la castagna, ha sfamato tanta gente. Infatti, non c'era casa contadina che non prevedesse, appeso al camino, il paiolo di rame per cuocere la polenta che, quando le cose andavano bene, era condita con un buon sugo di salsiccia oppure burro e formaggio. E, per un pranzo o una cena indimenticabili di magro: «polénta e marlùss».

Invece, quando nelle case contadine andava male, non rimaneva altro che nutrirsi di «polenta sorda», ossia senza alcun condimento se non quel vago aroma di saracca che, appesa con un filo al lampadario posto sopra al tavolo, offriva la possibilità ai commensali di strofinare la loro fetta sul pesce affumicato.

Adesso, spiaggiata sul divano, dinanzi alla tv, la gente si rimpinza di popcorn, chicchi che vengono sempre dalle pannocchie. Andranno di moda, però la cara vecchia polenta «l’è n’ätra roba».

Lorenzo Sartorio