Tutta Parma

Urla nelle osterie: quando la morra era il «piacere proibito»

Lorenzo Sartorio

«Gigètt» Mistrali, icona della parmigianità rimasta (quella vera), e grande conoscitore delle vecchie osterie parmigiane, fece, di questi locali, una descrizione che pare un quadro. «Erano - secondo “Gigètt” - covo di bevitori incalliti, filosofi del nulla, coristi, loggionisti, “bagolón”, anarchici, anticlericali, suonatori ambulanti, “scansafadìghi”, “bón da njénta”, giocatori di briscola, tresette, morra e terziglio, reduci di guerra, facchini, imbonitori, ortolani, ambulanti, nottambuli, artisti di strada, calzolai (“cibàch”), barbieri, ribelli appartenenti al mondo e sindacale e politico, tuttologi, dongiovanni da strapazzo, “piantagràni”, furbetti che le corna le mettevano ad ignari cornuti che le portavano». Un'umanità varia, dunque, che si ritrovava in locali solitamente bui, anneriti dal fumo di «mangiari» popolari e di sigari per scambiare quattro chiacchiere, fare la rituale briscola o disputare una «mano» a morra.

A proposito di morra, un gioco antico e, da sempre, messo al bando dalle autorità perché «al tiräva il bujj cme la méla la tira il mòsschi», la leggenda parmigiana narra che un grande giocatore di morra fu un certo «Brando», rissoso «casonér dedlà da l’acua» alto e robusto che quando picchiava «i sarùcch i gnävon zò dal térs pjan».

«Il gioco della morra - come cita Sergio Gabbi nel suo splendido “Fascino della Memoria” (Grafitalia -Reggio Emilia) -, ha sempre avuto una pessima reputazione tant’è che esiste tuttora il divieto di giocarlo in pubblico». Il «campo» da gioco era un robusto tavolo rustico, tipico delle vecchie osterie (anche delle stalle, dove però era la briscola a prevalere), ma tormentato dall’uso, abituato a sopportare calci e pugni e segnato dai timbri lasciati dai bicchieri «äd bjanch e ròss». Nell’ambiente stagnava un’aria pesante e greve a causa degli odori aspri di sudore, tabacco e vino. Lo spettacolo era animato da numerosi spettatori che si schieravano attorno al tavolo mentre i due giocatori, seduti di sghimbescio in un angolo del tavolo, gridavano simultaneamente un numero compreso tra due e dieci calando ciascuno una mano con le dita piegate, in modo che la loro somma corrispondesse al numero palesato. Chi ci azzeccava vinceva il punto che veniva prontamente segnato sul tavolo con un gessetto perché il ritmo del gioco era veloce, quasi ossessivo. Dopo un paio d’ore di gioco la voce diventava roca, la lingua si appiccicava al palato ed i numeri diventavano confusi e incomprensibili. Un fedelissimo dell’oste stazionava sempre davanti o nei pressi dell’osteria e non appena «nazäva» l’avvicinarsi «di zbìrr» emetteva un sonoro fischio, in estate ben comprensibile in quanto le finestre erano aperte, mentre in inverno al «ciocäva contra i védor» gridando a più non posso: «la fòrsa la fòrsa!!! (alludendo alla Forza Pubblica). Ed allora i giocatori si ricomponevano come i bambini quando, dopo la ricreazione, entra in classe la maestra.

La briscola (che si giocava anche nelle stalle durante le veglie serali unitamente al «gilet»), invece, era un gioco più che tollerato ma non per questo attorno al tavolo mancavano «arlje», «torlìdi» e prese per i fondelli per chi perdeva le varie «mani». I più esperti e cioè i «zugadór bón dabón» usavano mimi facciali per indicare, al socio che stava davanti, che carte aveva in mano al fine di avvisare il compagno di tavolo se poteva «strosär o andär a liss». Ma l’osteria non era solo luogo di bisbocce o spuntini, cene o pranzi durante i quali si gustavano le prede catturate dai cacciatori del paese (che potevano andare dalla selvaggina più prelibata agli innocui «gat sorjàn» che avevano il vizio di girare un po’ troppo sui tetti o nelle aie durante le nottate invernali). Era anche momento di aggregazione, socializzazione, luogo deputato per fare buoni affari (vendere una bestia, un carro di fieno, una partita di formaggio, combinare qualche buon matrimonio ecc.). Era il luogo dove tutto il paese, la comunità, il borgo, il rione, si ritrovavano attorno ad alcuni tavolini di legno bruciacchiati dai sigari e macchiati di vino, ai quali prendevano posto gagliardi avventori che si sfidavano a colpi di «asso, fante, tre e re» sorseggiando mai contati bicchieri di bianco o rosso, d’inverno, centellinando un piede di maiale bollito, d’estate, all’ombra di un fronzuto bersò, dissetandosi con gigantesche fette di anguria.

I nostri nonni, compiendo questi rituali, esorcizzavano le fatiche di un duro e massacrante lavoro, scacciavano lo spettro della miseria e a volte della fame, affogavano i loro pensieri in una bottiglia di lambrusco, «scòrsa amära» o malvasia, sognavano un avvenire più roseo e sereno calando una briscola e vincendo quella «mano» che li avrebbe compensati di tante amarezze ed altrettante delusioni. Era un momento davvero importante per stare insieme, parlare, confrontarsi, vedersi, criticarsi, ma anche aiutarsi, condividere gioie e dolori, essere partecipi della vita del paese in maniera intensa e pulsante. Però l’osteria, «l’andär a l’òst», come dicevano dalle nostre parti, non era ben visto né dalle mogli, né tantomeno dai parroci i quali a quei «luoghi di perdizione» (che qualche volta, però, vedevano presenti anche loro per una furtiva briscola), lanciavano infuocati strali durante l’omelia domenicale per la grande soddisfazione delle «rezdóre».

Poi arrivò il progresso, e con il progresso, lo spopolamento delle terre alte, di quelle collinari, della campagna in nome della dissennata ammucchiata sociale nelle città e nei grossi centri urbani. Si abbandonarono cascine, rustici, essiccatoi, stalle, campi e boschi per lavorare nelle fabbriche, abitare in enormi condomini dove il cemento ha sostituito prati, boschi e aria pura. E nei paesini rimasti appollaiati sui monti, adagiati nelle dolci colline, oppure immersi nella grassa campagna, solo pochi «sopravvissuti», per lo più anziani, costretti a rinunciare ai vari negozietti che, negli anni, hanno chiuso definitamente i battenti e alle ultime osterie, uniche postazioni di guardia delle «necropoli» appenniniche che il terzo millennio costringerà prima o poi a chiudere definitivamente aumentando lo spettrale silenzio in quei borghi resi già sufficientemente tristi dalla solitudine e dallo spopolamento selvaggio. Un atto di coraggio, di intelligenza e di sensibilità fu mostrato alcuni anni fa da alcuni sacerdoti della montagna piacentina che scesero in campo per salvare le uniche osterie rimaste, non più «luogo di perdizione o di sbornie selvagge» ma, al contrario, «centri di socializzazione e aggregazione umana». E fa davvero piacere in piena era di computer, Internet e diavolerie varie che una sparuta pattuglia di sacerdoti abbia avvertito il pericolo dell’isolamento che sta caratterizzando l’uomo d’oggi il quale naviga, come un personaggio uscito dalle pagine di Verne, negli avveniristici mondi della scienza e dell’informatica. In perfetta solitudine, avulso da tutto ciò che lo circonda o gli può suscitare emozioni: quelle che temprano il cuore e lo spirito.

Una briscola, quattro chiacchiere ed un bicchiere all’osteria, anche oggi, se non coniugano alla perfezione la vocazione del nuovo secolo per la scienza o l’informatica, possono rappresentare la speranza che la gente desideri nuovamente stare insieme, parlarsi, magari litigare, prendere qualche sana sbornia, voglia stare in veglia senza l’assillo di una televisione che trasmetta fesserie. Voglia, insomma, vivere.