L'OMICIDIO DI VIA MARX

«Mi sento solo e triste». Così Miodini, che uccise la moglie, rinuncia ai domiciliari e torna in carcere

Georgia Azzali

Cinque mesi in una cella di via Burla. Poi si erano aperte le porte del carcere per Giorgio Miodini, l'ex tassista che il 15 maggio ucciso la moglie con un colpo di fucile all'addome mentre dormiva. Domiciliari in una struttura protetta del Parmense: così aveva deciso il gip Sara Micucci, dopo la richiesta della difesa che aveva ottenuto anche il parere favorevole della procura. Ma in quella casa di riposo, con tanto di giardino e personale accogliente, Miodini ha cominciato quasi subito a dare segni di insofferenza. E così, una decina di giorni dopo, è rientrato in via Burla. «Diceva di sentirsi solo, di avere difficoltà a dialogare con gli altri ospiti e di essere sempre più abbattuto. C'era anche il timore che potesse farsi del male - spiega l'avvocato Mario L'Insalata - così i responsabili della struttura hanno segnalato la situazione, e il gip ha disposto il ritorno in carcere». E, d'altra parte, anche gli arresti nella casa dell'omicidio in via Marx, ammesso che fossero stati possibili, erano stati esclusi da Miodini: «Solo l'idea mi fa venire gli incubi», aveva detto al difensore.

Eppure, sulla decisione del gip Sara Micucci, che gli aveva concesso i domiciliari, aveva inciso non solo l'età - Miodini ha 76 anni -, ma anche la consulenza psichiatrica, firmata dalla specialista modenese Matilde Forghieri, che aveva stabilito la totale capacità di intendere e volere e allo stesso tempo anche l'assenza di pericolosità.

Già la scorsa estate, quando il pm Paola Dal Monte aveva dato il via alla consulenza psichiatrica (dopo la sua nomina a procuratrice a Lanusei, il fascicolo è passato al collega Ignazio Vallario), la difesa aveva preannunciato una richiesta di sostituzione della misura cautelare. Così, l'istanza era stata presentata nelle scorse settimane. Ed era stata accolta. Ma Miodini ha «preferito» tornare in carcere.

Eppure, dietro lo sparo di Miodini, verso le 8 di quella mattina di primavera, non ci sarebbero ombre di follia. «Ho avuto un momento di buio e ho sparato. Non riesco a spiegarmi perché l'ho fatto». Un cortocircuito improvviso: li aveva descritti così, Miodini, durante l'interrogatorio di garanzia, quegli istanti nella casa di via Marx quando aveva ucciso la moglie Silvana Bagatti, sua coetanea, la donna con cui aveva condiviso la vita. Era stata uccisa con un fucile da caccia irregolare: «Una vecchia arma di famiglia, lasciata a mio padre e che io avevo portato a casa nel 2003, ma poi ho dimenticato di denunciarla», aveva spiegato l'ex tassista. Un elemento, tuttavia, tutt'altro che secondario, tanto che il pm aveva contestato a Miodini la premeditazione: un'aggravante, così come quella del rapporto coniugale, che significa ergastolo. Ma in quella casa gli investigatori avrebbero dovuto trovare anche un'altra carabina, regolarmente denunciata, di cui però non c'era traccia. «Non ce l'ho più da molti anni, devo averla data a qualcuno», aveva spiegato Miodini. Dopo l'interrogatorio di garanzia, però, il gip ha escluso la premeditazione. Ma bisognerà attendere la conclusione delle indagini per capire in quale direzione andrà la procura. Per vedere se la premeditazione reggerà.

Tassista in pensione, Miodini viveva solo in via Marx con la moglie. Silvana, di cui si è saputo pochissimo in tutti questi mesi. Uccisa in quel letto da cui si alzava raramente, piegata da una depressione che le toglieva l'aria. E solo il marito si sarebbe occupato quotidianamente di lei. Senza figli, due nipoti e qualche raro amico. Fino a quella mattina. Quando Silvana è stata inchiodata al letto da un colpo di fucile.

Georgia Azzali