Intervista

Due serate al Regio con Paolo Crepet: «Senza emozioni siamo persone miserabili»

Mara Pedrabissi

Come si fa a (tornare) a «mordere il cielo»?... Si comincia da gessetti e lavagna, per riscrivere una società che abbia il coraggio di nuove «eresie»: risponde così Paolo Crepet, psichiatra, sociologo, saggista, in arrivo a Parma, sul palcoscenico del Teatro Regio, con la conferenza spettacolo «Mordere il cielo» (giovedì 28 novembre alle 21 a cui è stata aggiunta, visto il tutto esaurito, la data del 18 dicembre).

Professor Crepet, lei parte da una domanda: dove sono finite le emozioni? Partiamo da qui anche noi: siamo diventati una società di persone “anestetizzate” alla vita?

«Dobbiamo essere coscienti della fase storica che stiamo attraversando. Indubitabilmente, e per tante ragioni, abbiamo cambiato modo di vivere. Quello che è successo negli ultimi 30 anni è assolutamente incomparabile rispetto a tutta la storia dell'umanità, non siamo mai cambiati tanto rapidamente come in quest'ultimo periodo. Non solo in Italia o nel mondo occidentale. C'è una parte del mondo orientale che, per certi versi, è perfino più avanti in questo cambiamento. Penso al Giappone, dove il 70% dei ragazzi e delle ragazze non usa più il telefono per telefonare. Come si fa a non capire che questo è un cambiamento enorme dal punto di vista emotivo? La voce è un'emozione, dalla voce capisco come sta l'altro».

Quali sono i rischi di una società che non sente emozioni?

«È una società più povera, miserabile. La miseria non dipende solo dalla condizione materiale; abbiamo sempre definito “miserabili” persone che non avevano nulla, se non quattro stoffe che li avvolgevano, adesso la miseria è morale, etica, relazionale. Trovo miserabile una persona che non ha relazioni emotive».

È stato a Parma in marzo, torna ora con due date, di cui la prima “esaurita”. Lei non è una persona “rassicurante” nel senso che non “imbelletta” la realtà. Cosa cercano in lei le persone?

«Ci sono persone che vengono perché sono già “in accordo”, perché hanno letto i miei libri e vogliono una conferma, in qualche modo, di ciò che pensano. Poi c'è chi viene per curiosità, magari non ha mai letto nulla o mi ha ascoltato in maniera occasionale. In generale credo che le persone vogliano orientarsi, come accade da sempre nella storia e nelle religioni, si cerca un “guru”. Io non voglio, naturalmente, ricoprire nessun ruolo religioso. Ma è chiaro che il ruolo di “guru”, cioè colui che sopporta il peso, in qualche modo mi viene riconosciuto oggi che ho una certa età, che ho scritto più di quaranta libri, che ho tenuto più di 4000 conferenze. Tutto questo mi dà un credito anche presso chi non è d'accordo con me. A volte uno può anche non essere d'accordo ma sente di condividere una preoccupazione generale».

Ha scelto come titolo del libro uscito in giugno e, quindi, della conferenza spettacolo «Mordere il cielo». Come come facciamo a mordere il cielo?

«Si comincia con i bambini. Credo che sia fondamentale ricominciare da lì, che non possiamo pensare a una società di adulti diversa se non ci siamo impegnati in un'educazione diversa delle giovani generazioni. Quindi bisogna avere il coraggio, la radicalità, la voglia sovversiva, nel senso buono del termine, di sottrarsi a una certa idea della vita fondata sulla comodità, sulla facilitazione di qualsiasi cosa, sul pensiero che il lavoro non debba esistere ma debba esistere la rendita. Ecco sono tutte queste cose che, alla fine, rendono la nostra comunità meno interessante. E noi stiamo producendo, obiettivamente, cose meno interessanti di 30 anni fa, accade nella letteratura, nel cinema, nella politica».

Il tema dell'educazione, in particolare, le è molto caro.

«Perché da lì può iniziare il cambiamento. Poco fa mi chiedeva da dove si comincia a mordere il cielo, si comincia da gessetti e lavagna. Approfitto di questa intervista, proprio per riflettere sul ruolo, all'avanguardia, che la vostra regione in passato ha avuto nel coniare modelli educativi. Ora sento ridurre tutto a “asili gratis”. A parte che questo populismo del “tutto gratis” non lo condivido, ma ci vogliono dire cosa si fa in quell'asilo? Ognuno fa quello che vuole? Questo è il tema centrale».

È uscita nei giorni scorsi la sua autobiografia, storia di un percorso lungo 73 anni. Si intitola «Cosa porti con te». Lei cosa porta con sé?

«Sono orgoglioso di arrivare a una certa età avendo portato qualcosa. Sono orgoglioso di non essere stato sdraiato sul divano da giovane, di avere lavorato in giro per il mondo. Ma sono tutte cose che mi sono cercate, non sono venute a bussare alla mia porta. In definitiva, per dirla con Neruda, confesso di avere vissuto».

Mara Pedrabissi