Tutta Parma

Pane secco e osso di spalla: le antiche minestre povere

Lorenzo Sartorio

Le minestre parmigiane più antiche e più povere erano: quella fatta con l’osso di spalla spolpato e la «panadella». La prima, aveva come protagonista l’osso di spalla di prosciutto che, un tempo, quando la miseria e la fame facevano sul serio, nelle osterie, come un’auto o un motorino, veniva acquistato di seconda o terza mano rappresentando, per altro, una preda ambitissima. Ogni avventore pagava la propria quota man mano l’osso cambiava di proprietario fino a che, l’ultimo acquirente, una volta tagliuzzata la polpa rimasta, lo abbandonava sul tavolo accanto alla bottiglia di vino rigorosamente vuota.

Ma non era ancora venuto il momento di gettarlo ed, allora, l’osso, spogliato ormai di tutta la carne, veniva «catturato» da qualche disperato di turno e buttato dentro la pentola per insaporire, unitamente ad un paio di croste di «parmigiano», sfruttate al massimo e quindi più sottili di una lama, una zuppa o un minestrone di verdura.

L’altra antica «minestra povera» delle nostre parti (città, contado, bassa e montagna) era la «panadella», chiamata molto ironicamente dai contadini «briga d’il donni» poiché, per cucinarla, non occorreva molto lavoro. Era sufficiente del pane secco che veniva bollito nell’acqua salata, un filo d’olio, una foglia di lauro ed una manciata di parmigiano, l’ambito «formàj ròss» dei contadini, che si differenziava da quello «zmórt» (pecorino o caciotta) proprio in virtù del suo colore giallo e del suo sapore. La minestra, che prende il suo nome da minestrare, amministrare, perché veniva servita a tavola, ossia «ministrata», dal capofamiglia, rispetto agli altri cibi che venivano portati in tavola, ha sempre rappresentato un simbolo sacro quasi come il pane.

Ed anche nel linguaggio figurato, la famosa «scodella di minestra», significava avere qualcosa da mangiare tutti i giorni conquistato con il sudore della fronte. Tempo addietro, specie nelle nostre campagne, una scodella di minestra, oltre sfamare la numerosa famiglia contadina, la si offriva ai medicanti che bussavano alle porte delle case, così pure la «rezdóra» non lesinava una scodella di minestra ai girovaghi, che dopo averla divorata, prima di pernottare nel fienile, durante la veglia serale intrattenevano, al tepore della stalla, i contadini raccontando le loro «fòle».

Come pure una scodella di minestra era offerta ai «frè sercón» che, a bordo del loro calesse, bisaccia al collo, giravano per le aie andando alla «serca» (questua).

La minestra, dunque, non solo dal punto di vista gastronomico ma anche sociale, in passato, era divenuta un simbolo, come il pane, di sopravvivenza e di generosità per chi la offriva. Ed, a questo proposito, non possiamo dimenticare colui, che di minestra, nelle scodelle dei poveri, ne versò quintali come l’indimenticabile Padre Lino, il cui esempio prosegue nella «Mensa del povero» del Convento dell’Annunziata.

Il re delle minestre estive era il popolarissimo minestrone impreziosito con le tante verdure dell’orto tra cui «al fazólam», il «fagiolame» ( fagioli, fagiolini, taccole), specialità dell’osteria Praigoni di Strada Nuova: minestrone di verdura con la «pistäda äd gras». In inverno, invece, imperavano altre minestre fatte con quelle «verdure da freddo» che si raccoglievano imperlate di «galabrùzza» come le verze e i porri. Le minestre invernali iniziavano ad essere portate in tavola in prossimità della solennità dei Santi con la zuppa di fave, alla quale il «rezdór» aggiungeva una «nùvvla äd lambrùssc».

Stesso rito avveniva con il brodo bollente di carne rappresentando il «sorbir» del contadino di ieri, ossia, il viatico per il lauto pranzo dei giorni di festa.

Altre antiche minestre parmigiane, purtroppo completamente sparite nei menù dei ristoranti ed anche di tante famiglie, erano «riz e tridura» (riso in brodo con uova e spinaci tritati) e «riz e vérzi. Queste minestre, come molte altre, si ricavavano facendo un brodo dove venivano immerse alcune ossa «äd gozén» ben spolpate in quanto, la poca polpa, veniva utilizzata per fare le polpette.

E poi il minestrone in versione invernale con zucca e verze, pasta e fagioli e zuppe di cipolle, patate, rape, mentre, in montagna, imperversavano le zuppe di castagne e di porri.

Nelle famiglie benestanti, invece, quando si tirava il collo ad un pollo o ad una gallina, veniva servita una minestra, solitamente «galanén», in brodo di fegatini e altre rigaglie. Comunque, alla domenica, non poteva mancare la «pasta raza» in un generoso brodo di carne. Alcuni anziani di Lagrimone e Palanzano ricordavano anche una «mnéstra ròssa» che veniva servita loro, rigorosamente in inverno, in una vecchia osteria dalle parti del Conservatorio, al mercoledì, quando scendevano a Parma per il mercato settimanale. Una brodaglia bollente per combattere il freddo, fatta con tanta conserva, nella quale galleggiavano i taglierini. Un'altra tradizionale minestra parmigiana che, anche se era tradizione gustarla terminate le feste natalizie, erano i «maltagliati» in brodo di verdura. I «maltagliati» altro non erano che i preziosi ritagli della «fojäda ädi anolén» che era avanzata e che, tagliata grossolanamente con il coltello, veniva immersa in un brodo di verdura rinforzato sempre dalla «pistäda» e da alcune «gròssti äd formàj». La minestra ha pure ispirato alcuni noti proverbi parmigiani: «la mnéstra riscaldäda la sa sémpor äd fumm», «l’è sémpor cla mnéstra», ed infine, «la mnéstra l’é la bjäva di cristjàn».