CASSAZIONE

Pesci, confermata la sentenza dell'Appello: sconterà 7 anni e 10 mesi

Roberto Longoni

Colpevole, colpevole, colpevole. Quanto stabilito dal tribunale di Parma nel 2021 e ribadito dalla corte d'appello di Bologna, con la condanna a sette anni e dieci mesi un anno fa è stato confermato (con le provvisionali a persona offesa e parti civili) dalla suprema corte. Il ricorso di Federico Pesci è inammissibile per la Terza sezione penale della Cassazione. Terzo e ultimo grado di giudizio: ora, per il 52enne ex «ragazzo d'oro» della moda parmigiana e non solo, si aprono le porte del carcere. Due le ipotesi: la più probabile che - una volta comunicata ai suoi avvocati l'ufficialità della pena definitiva - si presenti lui stesso, a Modena, a Bologna o a Forlì o a Ferrara, dove esistono bracci per i sex offender altrimenti alla mercé degli altri detenuti. Oppure, che siano le forze dell'ordine a portarcelo. No comment da parte di Fabio Anselmo, che con Francesco Petrelli, presidente dell'Unione camere penali, ha difeso Pesci anche ieri a Roma. Soddisfatte (come è ovvio) le parti civili. «Anche i giudici della Cassazione hanno confermato l'attendibilità della parte offesa» esclama Donata Capelluto, avvocata di Lucia (nome di fantasia, come sempre si è detto) e neopresidente dell'Associazione nazionale forense. «Sono contenta che tutto lo sforzo profuso dal Centro antiviolenza in favore di una persona in grosse difficoltà sia stato riconosciuto anche dalla Cassazione» dichiara Giovanna Fava, avvocata del Centro antiviolenza di Parma. «Al di là del risultato ottenuto nell'interesse del Comune - dice l'avvocato Livio Di Sabato, che rappresenta il Comune a sua volta costituito parte civile in questa causa - in una società civile fatti come quelli oggetto della sentenza Pesci non dovrebbero avere albergo».

La vicenda

Un messaggio su Facebook: era stato l'allora 46enne commerciante a contattare lei, 21 anni, un passato e un presente tutt’altro che facili. Poche sere dopo, Pesci, in sella alla propria Indian era andato a prendere Lucia sotto casa. Quattro chiacchiere davanti a un aperitivo, una pizza, e lui le aveva proposto un rapporto sessuale a pagamento. Lei, che all’insaputa dei familiari si prostituiva, aveva accettato, per 70 euro. Era la sera del 18 luglio 2018, il prologo di quella che per le cronache sarebbe diventata la «notte degli orrori».

Tre ore dopo il loro incontro, i due raggiunsero l’attico in via Emilio Lepido, dove Pesci abitava sopra il negozio Surf in Paradise: oltre a un rapporto sessuale, consumarono altro alcol e cocaina. La droga finì, e il padrone di casa telefonò a Wilson Ndu Aniyem, 53enne nigeriano, per averne altra. Il pusher si presentò poco dopo e fu invitato anche a «partecipare». Lucia in un primo tempo non obiettò nulla. Ma quando, legata e frustata, provò a chiedere ai due di fermarsi, ritrovandosi anche con una ball gag (una specie di bavaglio con una pallina) in bocca, loro non le diedero ascolto subito. Il nocciolo di questa storia maledetta è in questi frangenti: legato a un consenso che a un certo punto è cessato. La ragazza aveva tutto il diritto di dire basta e loro il dovere di non fare nulla che lei non volesse. Qui l’accusa. Mentre la difesa ha sempre puntato sull’inattendibilità di Lucia, sottolineando come lei alla fine di quella «serata esagerata» (definizione data da lei stessa al telefono con un’amica alle 7,30 e riferita in aula dalla tassista che l’aveva udita riportandola a casa) volesse restare a dormire nell’attico. Fu Pesci a impedirlo, dicendole di dover andare a lavorare.

La denuncia d'ufficio

La «serata esagerata» aveva lasciato i segni. Evidenti su Lucia, accompagnata il 20 luglio al pronto soccorso dalla madre. Ne sarebbe uscita alle 2 del 21 luglio con una prognosi di 45 giorni. Lesioni personali gravi: la denuncia scattò d’ufficio. Il giorno seguente, la ragazza venne convocata dalla Squadra mobile. Lei raccontò di essere stata caricata a forza su un’auto e di avere subito violenza da due sconosciuti, mentre si prostituiva in strada Baganzola. Ma non venne creduta. Solo il 25 luglio, incalzata dalle domande, disse dell’attico. Paradossalmente, la sua bugia iniziale avrebbe rafforzato la ricostruzione seguente: per i giudici, Lucia non sarebbe stata mossa né da volontà di vendetta né da desiderio di ottenere contropartite.

Pesci e Aniyem, clandestino dal 2011, vennero arrestati all’alba, a fine agosto. Il pusher, difeso dall’avvocato Francesco Saggioro, optò per il rito abbreviato (che dà diritto a un terzo di sconto di pena) e nel maggio del 2020 venne condannato dal gup Mattia Fiorentini a cinque anni e otto mesi (anche per lo spaccio).

L'altro, invece, trascorsi quindici giorni in via Burla e cinque a Modena, dal carcere passò ai domiciliari: ci sarebbe rimasto 21 mesi, fino ai primi di giugno del 2020, autorizzato a uscire solo per andare a lavorare. Poi, la misura cautelare venne sostituita con l’obbligo di firma in questura. Dal 28 luglio, infine, a suo carico sarebbe rimasto solo il divieto di avvicinamento a Lucia.

Il processo

Nel frattempo, i suoi difensori, Mario L’Insalata e Antonio Dimichele, avevano tentato la via del patteggiamento: invano, vista la contrarietà del pm Andrea Bianchi. Il 17 aprile 2019 era così cominciato il processo davanti al collegio presieduto da Gennaro Mastroberardino. Dall’accusa iniziale di concorso in violenza sessuale si era passati a quella di violenza sessuale di gruppo: la pena massima no era più di sei anni, ma di dodici. Dimichele, intanto, venne sostituito dal ferrarese Anselmo, il penalista al fianco della famiglia di Stefano Cucchi. A rappresentare Lucia, l’avvocata parmigiana Donata Cappelluto. Anche il Centro antiviolenza presieduto da Samuela Frigeri si costituì, rappresentato da Giovanna Fava del foro di Reggio Emilia. E così il Comune di Parma, assistito dal parmigiano Livio Di Sabato.

Durato due anni, il processo di primo grado fu piuttosto una battaglia. Ascoltata la testimonianza della criminologa Roberta Bruzzone, perita nominata dalla difesa, Mastroberardino conferì a Giuseppina Paulillo l’incarico di stabilire se Lucia fosse attendibile. In fondo, proprio su questo verteva buona parte dello scontro tra le parti. Pur definendo la parte offesa «borderline», la responsabile dell’Unità operativa complessa residenze psichiatriche e psicopatologia forense dell’Ausl, rispose che Lucia era degna di fede.

«Sono un uomo rovinato»

Un’affermazione fatta in aula dalla psichiatra dopo aver appena saputo di essere stata denunciata per falsa perizia e falsa testimonianza. In questo clima si arrivò alla sentenza di primo grado. Pesci venne condannato a otto anni e mezzo: sei mesi in meno di quanto richiesto dal pm Bianchi. Anselmo parlò di «sistema Parma», insinuando il sospetto di una scarsa serenità ambientale. Donata Cappelluto ribatté che la formula giusta era «protocollo Parma», ricordando «l’impegno delle istituzioni cittadine che lo hanno firmato per contrastare le violenze sulle donne». A Bologna, ancora una volta la difesa contestò le indagini, il referto del pronto soccorso, le intercettazioni e i tabulati, oltre che la perizia psichiatrica. Ma la sentenza d’appello cambiò poco. A Pesci, ancora dichiarato colpevole, la pena fu ridotta di soli otto mesi. «Sono un uomo rovinato per qualcosa mai commesso – commentò lui -. Mai fatto una rissa, mai una guida in stato d’ebbrezza, mai costretto una donna a nulla che non desiderasse». Chissà che cosa pensa ora. E chissà cosa pensa Lucia.