L'intervista

Tobia Bocchi, addio all'atletica: «Lavoro e rugby, vi racconto la mia nuova vita»

Tobia Bocchi, ha da poco annunciato il suo addio all'atletica. Ma è più insolito, forse, vedere un atleta che lascia un Gruppo sportivo, congedandosi come ha fatto lei dai Carabinieri.

«Se è per questo si fa molta più fatica a trovare un atleta che si ritira giusto l'anno dopo aver fatto il suo personale e pochi mesi dopo aver partecipato ad un Campionato europeo assoluto».

Appunto. Ci si chiede allora cosa le sia passato per la testa.

«La notizia che il mio storico allenatore, Renato Conte, si sarebbe ritirato, ha avuto il suo peso specifico, in questa scelta. Sul tavolo, a quel punto, c'erano due opzioni: andare all'estero oppure restare in Italia ma spostarmi da un'altra parte, in Puglia o in Sicilia, per farmi seguire da Daniele Greco o Michele Basile».

E nessuna di queste la convinceva?

«Le dico in tutta onestà: io sono fortemente attaccato a Parma e alle mie radici. Per nulla al mondo sarei stato disposto a trasferirmi altrove».

Quindi la sua è stata principalmente una scelta di cuore?

«Assolutamente sì. Anche se poi, dietro, ci stanno tante altre cose».

Ad esempio?

«L'anno scorso ho conseguito la Laurea magistrale in Ingegneria informatica, settore che offre una miriade di opportunità lavorative. Ecco, la paura di lasciare una posizione stabile come quella in un Gruppo sportivo, superando la logica del "posto fisso", non mi ha mai nemmeno sfiorato. Con le competenze che avevo acquisito durante il mio percorso di studi, ero certo che non appena mi sarei congedato il cosiddetto "piano B" avrebbe potuto garantirmi, in prospettiva, una piena realizzazione professionale e personale».

Ci ha pensato molto prima di congedarsi?

«Non era certo una scelta che avrei potuto fare a cuor leggero. È stata frutto di un'attenta riflessione. Sono stato al Ris di Parma, dove ho incontrato il colonnello Lago. Poi ho parlato anche con il maggiore Zampa. Avendo approfondito, nel corso dei miei studi, tutto il tema legato alla sicurezza, volevo capire se ci fosse la possibilità di occuparmi, proprio all'interno del Ris, di informatica forense. Ma non era una strada semplice da percorrere. Nel frattempo, guardandomi un po' attorno, si è concretizzata un'altra bella opportunità lavorativa, che ho colto al volo. Da lì, ho scelto di congedarmi».

Da triplista ha avuto le sue soddisfazioni: ha partecipato ad una Olimpiade, a Tokyo; ha vinto due medaglie d'oro in Coppa Europa, contribuendo al successo della Nazionale italiana, un argento ai Giochi del Mediterraneo e un altro agli Europei Under 20. Che anni sono stati, quelli vissuti nell'atletica?

«Mi sono divertito come un matto. Sono fortunato. Ho imparato tante cose che vanno decisamente oltre l'aspetto tecnico e sportivo, acquisendo prima di tutto strumenti di vita che oggi posso applicare anche al mondo del lavoro. Banalmente, pensi alla gestione dello stress: avere un appuntamento importante, una scadenza, per me è una passeggiata. Nell'atletica, tutto questo, era all'ordine del giorno, unito alla responsabilità dell'essere un agonista che compete ad altissimi livelli. E quando nello sport le cose non vanno come vorresti, mi creda, gli aspetti negativi diventano macigni. Per quanto mi riguarda, perdere una gara brucia più che un progetto lavorativo sfumato: non so come dire, mi colpisce più nel profondo».

Quando uno smette è naturale tracciare un bilancio. Mi dica una gioia e un rimpianto.

«Sul rimpianto più grande della mia carriera, non ho dubbi: il Campionato europeo indoor ad Istanbul, nel 2023. Ero arrivato lì praticamente con una medaglia al collo, ma non sono riuscito a portarla a casa. Peccato: il piazzamento sul podio era davvero alla mia portata. Della gioia più grande ne parlavo giusto qualche giorno fa con Linda (Olivieri, azzurra dei 400 ostacoli, ndr), la mia ragazza con cui ho condiviso l'esperienza olimpica a Tokyo e che si è da poco trasferita qui a Parma, dove si allena. Nel 2021, ai Campionati italiani Assoluti di Rovereto, per la prima volta ho saltato sopra i 17 metri - per la precisione 17,14 - ottenendo così il minimo per le Olimpiadi. Ho versato lacrime di gioia, soprattutto perché a guardarmi c'era Renato: spostandomi per i vari meeting in giro per il mondo, non sempre avevo accanto il mio allenatore. Quel giorno, invece, Conte era lì».

Mi diceva che la sua ragazza ora si allena a Parma: la nostra città si conferma punto di riferimento per l'atletica nazionale.

«Parma è un centro di assoluta eccellenza. Abbiamo uno degli impianti più all'avanguardia in Italia, nei prossimi mesi verrà anche rifatta la pista. I risultati sono lo specchio di una seria programmazione».

Tobia, va bene il congedo e l'addio all'atletica. Ma si è concesso una seconda vita sportiva, tornando al suo primo amore.

«Il rugby, che avevo praticato dai 7 ai 14 anni».

Suo nonno, Silvio Bocchi, è stato una colonna della Rugby Parma. A lui è intitolato anche il Museo del club. Cosa prova ad indossare quella maglia?

«Un misto di orgoglio ed emozione. Pensi che fin dal primo giorno in cui avevo iniziato a dedicarmi all'atletica, in un angolo del mio cervello c'era sempre una vocina che diceva che prima o poi sarei tornato alla palla ovale… Grazie a Rocco Trasatti e a Damiano Mazza, che mi hanno dato grande supporto, qualche mese fa ho ripreso ad allenarmi con la squadra Cadetta della Rugby Parma, in serie C».

Ha fatto fatica a riadattarsi ad una disciplina così diversa dal salto triplo?

«Sul piano atletico per niente. Su quello tecnico, devo riprendere confidenza con quegli automatismi perduti: il movimento con la palla, l'intelligenza di gioco che ti porta a capire come stare in campo e in quali spazi muoversi. La corsa c'è. Col pallone in mano invece devo lavorare: serve tempo. Sto accumulando esperienza con la prima squadra: l'head coach Pippo Frati mi ha voluto più per la mia voglia di fare, di allenarmi, che per le effettive qualità. Sono infatti ancora lontanissimo dall'essere un buon giocatore. In prospettiva, magari, lo potrò diventare».

Da uno sport individuale ad uno di squadra: cambia il mondo.

«Cambia prima di tutto l'approccio: in questo contesto capisci come i tuoi compagni e la squadra vengano prima di te stesso. Una prospettiva nuova: nel salto triplo, al di là dell'allenatore e dello staff che mi seguivano, sapevo di poter contare solo su me stesso, anche in tutto ciò che precedeva l'appuntamento con la gara. Mi era ben chiaro, insomma, cosa volevo ottenere e dove arrivare. Nel rugby non hai alcun controllo sulla preparazione mentale e sulla voglia di vincere degli altri: su quello non esistono margini di manovra, non puoi incidere. Puoi fare gruppo, trasmettere agli altri la tua determinazione. La tua energia. E io, glielo garantisco, in corpo ne ho ancora molta».

Vittorio Rotolo